Il Trasciatti » Precursori http://trasciatti.it Lunario inattuale di letteratura e desueta umanità Tue, 22 May 2012 09:37:52 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 Ricordando Tonino http://trasciatti.it/2012/03/28/ricordando-tonino/ http://trasciatti.it/2012/03/28/ricordando-tonino/#comments Wed, 28 Mar 2012 09:16:39 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=2058

Un trattore Argo, della collezione del meccanico Massaroni a Bellaria, in Romagna, e un bel testo di Tonino Guerra.

Altri link relativi alla Romagna.

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Nicola Dal Falco: Storie etrusche di vino http://trasciatti.it/2012/02/26/nicola-dal-falco-storie-etrusche-di-vino/ http://trasciatti.it/2012/02/26/nicola-dal-falco-storie-etrusche-di-vino/#comments Sun, 26 Feb 2012 18:37:49 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1983

STORIE ETRUSCHE DI VINO NELLA MAREMMA GROSSETANA
I progetti di ricerca sul campo, condotti dall’Università di Siena

«È possibile che nell’attuale vegetazione dell’Etruria, in particolare nella fascia tirrenica della Toscana e del Lazio settentrionale, siano sopravvissuti lembi del paesaggio vegetale etrusco»?
Questa è la domanda che si sono posti Andrea Ciacci e Andrea Zifferero, docenti del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. Domanda lampante che ha il pregio di riunire il passato e il presente non solo attraverso la scoperta e lo studio di architetture, di oggetti o di ossa, ma di farci percepire la continuità spaziale e la forza vitale del concetto, forse troppo scolarizzato, di storia.
Uno scavo o un museo rappresentano già delle esperienze forti, interrogative, che nel caso del paesaggio e delle sue forme viventi diventano addirittura uniche.
Capaci, insomma, di creare quella vertigine che accompagna, passo dopo passo, il processo di conoscenza e quello connesso di memoria.
Il progetto Vinum, nato nel 2004, con una visione multidisciplinare che affianca all’archeologia, la botanica e la biologia molecolare, punta a dimostrare quanto e come le popolazioni superstiti di vite selvatica siano imparentate con piante di età molto antica.
«Dal punto di vista paleobotanico – sostengono i due studiosi – il recente ritrovamento di vinaccioli di vite silvestre in siti della media età del Bronzo associati a vinaccioli più vicini, sotto il profilo morfologico, alla vite coltivata, evidenzia la presenza di una vitivinicoltura arcaica in area tirrenica.
«Uno dei postulati del progetto ha tentato di istituire un collegamento tra la difficile, ma oggi non più impossibile caratterizzazione del DNA dei reperti paleobotanici con il germoplasma della vite selvatica attuale».
Le ricerche si sono concentrate intorno ai siti archeologici etruschi e romani dove emergevano importanti indizi legati alla vitivinicoltura: «trincee di coltivazione della vite, palmenti, abbondanza di contenitori per la conservazione e il trasporto del vino».
Prelevando il germoplasma dalle infiorescenze e dalle foglie apicali delle piante risulterebbe che la diversa caratterizzazione genetica sia attribuibile alle varie fasi di domesticazione delle specie da parte delle comunità residenti.
Contemporaneamente, osservando il portamento della viti selvatiche, abbarbicate agli alberi, si è approfondita l’evoluzione del vigneto etrusco, mettendolo in relazione con le antiche tecniche di coltivazione superstiti, ancora visibili in Italia, sia di derivazione etrusca come in Romagna e nel Casertano dove i tralci si sviluppano in altezza, sposandosi al pioppo, sia più squisitamente greche, presenti nell’isola del Giglio e in Sicilia.
In quest’ultimi casi, per l’Ansonica/Inzolia, che non si eleva troppo da terra, geneticamente vicino ai vitigni greci Roditis e Sideritis, giunti probabilmente nella penisola con la colonizzazione euboica nell’VIII secolo a.C., perdura l’uso di graticci di canne.
Dal progetto Vinum ne sono scaturiti altri due che circoscrivono precise aree geografiche.

La valle dell’Albegna
Il primo, ArcheoVino, in collaborazione con il comune di Scansano, nella Maremma grossetana, interessa la località Ghiaccio Forte e gli insediamenti etruschi e romani tra la valle d’Albegna e il fosso Sanguinaio, dove potrebbe sorgere un parco a tema, il cui principale richiamo sarà la produzione di un vino quotidiano non troppo distante dal più remoto genius loci e dalle originarie possibilità dei produttori etruschi.
Il secondo, battezzato Senarum Vinea, che partendo dagli orti dentro e fuori le mura di Siena, servirà a mappare i vitigni minori e autoctoni, miracolosamente sopravvissuti in un tessuto urbano alla massificazione e omologazione agricola, contribuendo così a salvare un frammento di biodiversità.
La valle dell’Albegna ha avuto ed ha tuttora un’importante vocazione vitivinicola. Un tempo, il vino, grazie alle rotte commerciali che facevano capo al golfo di Talamone, era anche venduto a Liguri e Celti, ed oggi la tenuta di Marsiliana, proprietà dei Principi Corsini, oltre a produrre da vigneti recentemente impiantati, conserva importanti necropoli, scavate fin dai tempi di Don Tommaso Corsini che vi scoprì l’omonima fibula, rinvenuta in una tomba non lontana dal colle del Castello.
In questo lembo di terra, paragonabile, dal punto di vista archeologico ed agricolo, ad un vero e proprio palinsesto, sono stati individuati due esemplari di vite selvatica che presentano notevoli analogie genetiche e morfologiche con il sangiovese e il canaiolo nero.
La scoperta, avvenuta battendo palmo a palmo le aree boscose e umide intorno ai siti, autorizza a pensare che la campagna di Scansano fu uno dei teatri naturali in cui prese avvio la domesticazione della vite.
Un lungo processo che ha inizio nell’età del Bronzo, quando vengono individuate delle piante, generate dai semi dispersi negli immondezzai dei villaggi agricoli e che prosegue, successivamente, tra il X e il VI secolo a. C., con una selezione continua, legata alla produttività e alla qualità.
In base ai dati raccolti, intorno all’VIII secolo a. C., la produzione di vino diventa centrale per l’economia della valle dell’Albegna, che si trova nell’area di influenza di Vulci.

Il tumulo 6 di Macchia Buia
A questo proposito è sicuramente indicativa la scoperta, avvenuta ad ottobre del 2011, del tumulo 6 nella necropoli di Macchia Buia, Durante gli scavi nella tenuta del Principe Corsini, effettuati durante il III Campo Internazionale di Ricerca Archeologica, condotto dalla Associazione Etruria Nova Onlus, sotto la direzione di Andrea Camilli, dirigente della Soprintendenza archeologica della Toscana e di Andrea Zifferero, professore dell’Università di Siena.
All’interno della sepoltura, inquadrabile in quel periodo, sono stati rinvenuti i resti di un individuo dalla corporatura massiccia, avvolto in uno stretto sudario e probabilmente adagiato su un letto basso, il cui scheletro si presentava in discreto stato di conservazione.
Le analisi di questi resti sono state affidate a Stefano Ricci, docente dell’Università di Siena, che procederà anche ad una ricostruzione dei dettagli del volto.
Ai piedi del defunto sono stati rinvenuti i resti di un secchio che contiene ancora uno strato di materia bianca, il cui contenuto verrà analizzato nei prossimi mesi.
Accanto sono state, poi, scoperte delle tazze da vino in ceramica nera che, al momento della chiusura del tumulo, dovevano essere appese lungo una delle pareti della camera.
Ma il dettaglio più emozionante del tumulo 6 di Macchiabuia, già depredato dagli scavatori clandestini, sono le due coppe trovate all’altezza della mano destra.
Il defunto avrebbe continuato a libare agli dei e a se stesso anche nell’aldilà.

(In alto: l’antica tecnica di coltivazione della vite)

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Alessandro Trasciatti: Il Cavallo Assassino http://trasciatti.it/2012/02/13/il-cavallo-assassino/ http://trasciatti.it/2012/02/13/il-cavallo-assassino/#comments Mon, 13 Feb 2012 17:49:31 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1938

C’è una cosa che mi colpisce nella biografia di Ferdinand Cheval (1836-1924): i lutti. Facciamo un elenco:
A 11 anni perde la madre.
A 19 anni perde il padre.
A 24 anni perde il primo figlio che ha un anno.
A 37 anni perde la prima moglie.
A 65 anni perde la figlia (25 anni) nata dal secondo matrimonio.
A 73 anni perde l’altro figlio maschio (50 anni circa).
Sugli 80 anni perde anche la seconda moglie.

Lui morirà a 88 anni.  E’ sopravvissuto a tutti. Con quale stato d’animo? Con quale forza? Certamente all’epoca la prospettiva di vita non era quella attuale, si moriva prima. Ma ci si può abituare alla morte dei propri cari? Se ne sono andati tutti: la madre, il padre, un figlio, una moglie, una figlia, un altro figlio, un’altra moglie. Verrebbe da pensare a una maledizione. Oppure forse era lui che li avvelenava. Ci sarebbe materiale per una storia nera e granguignolesca: Cheval, il postino che uccide. Oppure: Un assassino di nome Cavallo. E’ una cosa terribile pensare a questo essere con la vocazione assassina fin da bambino. Strano che poi non abbia ucciso prima il padre. Di solito questi bambini infernali sono edipici, prima ammazzano il padre, poi eventualmente la madre. Però, se penso a Anthony Perkins in Psycho, la madre l’aveva ammazzata lui e poi l’aveva imbalsamata. E l’aveva uccisa per gelosia, perché l’aveva trovata con l’amante. E imbalsamata per senso di colpa, per riparazione. Probabilmente il piccolo Cheval soffriva di nervi fin da piccino e poi aveva trovato sua madre a letto con l’amante. Si sarà detto: Ah sì? Tu vai con l’amante invece di stare con me e con babbo? E allora io ti ammazzo. Come avrà fatto a procurarsi il veleno non è chiaro. In un paesino come Charmes-sur-l’Herbasse non ci sarà stata neanche la farmacia. Magari avrà usato il veleno per topi. Morire di veleno è tremendo. Mi dispiace tantissimo per i topi. C’è una scena di Madame Bovary di Chabrol dove si vede Isabelle Huppert a letto, dopo che si è avvelenata, spalanca la bocca e tira fuori una lingua tutta nera e gonfia. Veramente un orrore. Me la son sognata spesso quella lingua. Come deve stare uno quando gli viene una lingua così?

Ma insomma, a undici anni Cheval avvelena la madre. Grande disperazione del marito contadino che non sa spiegarsi una morte così orrenda. Sorrisi beffardi del bambino Cavallo diabolicamente nascosto dietro una porta. Suo padre comincia a bere dallo sconforto, nei campi ci va sempre di meno. Ferdinand gli tocca fare tutto a lui. Per qualche anno resiste e, anzi, quel padre lì disperato gli fa pena. Però poi comincia un po’ a scocciarsi. Ormai lui è grande, vorrebbe anche andare in giro qualche volta, a qualche festa da ballo, per esempio, perché ci son delle belle ragazze, e poi anche se non sono belle son ragazze, e lui comincia ad averne proprio voglia. Invece gli tocca star sempre lì nei campi e dietro alle mucche nella stalla. Portagli da mangiare, mungile, leva la stalla. Vai a zappare, semina, taglia il fieno, fai la legna. E il padre Cheval che è sempre fisso all’osteria e non fa quasi nulla, al massimo va a vedere se le galline hanno fatto le uova e poi non ce la fa neanche a portarle in casa, sbronzo fisso com’è, barcolla, inciampa e le uova gli cascano nella merda di vacca.  Il giovane Cavallo non ne può più. Sempre a litigare con quel padre babbeo che torna tardi a casa la sera. Alla fine, una di quelle sere lì, prende un bastone e glielo spacca in testa. Anche la testa si spacca. Padre Cheval cade per terra in cucina e non si muove più.

Ora, certo, si pone un problema perché se un contadino di vent’anni (dopo aver avvelenato la madre quando era piccolo) uccide a bastonate il padre, non è una bella storia. Anche se siamo in un paesino della profonda campagna francese di fine Ottocento, qualche problema con la legge il Cavallo Assassino deve avercelo avuto. Nessuno però ne fa menzione. C’è però questo fatto ventilato da qualcuno del militare in Algeria. Forse, più che a fare il militare, c’è stato mandato a scontare la pena in qualche bagno penale, o è stato costretto ad arruolarsi nella legione straniera. Però su questo c’è un certo mistero dei biografi, un imprecisione nebbiosa in cui è bene non addentrarsi per non finire in qualche sabbia mobile.

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Un incidente aereo http://trasciatti.it/2011/11/13/un-incidente-aereo/ http://trasciatti.it/2011/11/13/un-incidente-aereo/#comments Sun, 13 Nov 2011 09:15:14 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1637

Un incidente aereo nelle campagne di Lucca tra 1939 e il 1940
Testimonianza di Sidonia Trasciatti

 
Tre aerei si scontrarono tra loro nel cielo di Lucca, precisamente a monte S. Quirico dove uno di questi cadde.
Un altro cadde alla Pieve S. Paolo e il terzo proprio a Tempagnano, dove io abitavo. In famiglia si parlò tanto di questo incidente, ma essendo molto piccola non capivo tutto. Ora, a distanza di anni, mi è venuta una grande voglia di saperne di più, ma ai miei genitori non posso più chiedere niente purtroppo. Mi rimane solo il ricordo di quel giorno.
Il rumore forte e anomalo di un aereo ci fece scappare tutti fuori di casa. L’aereo mi sembrava sul tetto e tutti gridavano spaventati, io ero molto piccola e stavo aggrappata alla gonna di mia madre senza rendermi conto di cosa succedeva.
Poi fortunatamente l’aereo ce la fece a uscire dal centro abitato e si andò a schiantare in un campo vicino con un grande boato.
(In quel campo negli anni 60 i miei genitori costruirono la nostra vera casa.)
I ragazzi del paese che erano andati a vedere sul posto raccontarono cose raccapriccianti.
Mia madre diceva che ogni anno una signora arrivava in carrozza per deporre dei fiori sul luogo.

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Direktor Trasciatti: Il Postino Cavallo http://trasciatti.it/2011/07/15/direktor-trasciatti-il-postino-cavallo/ http://trasciatti.it/2011/07/15/direktor-trasciatti-il-postino-cavallo/#comments Fri, 15 Jul 2011 08:40:16 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1309

Diario di avvicinamento

27 giugno 2011, ore 23 circa

Sono steso sul letto. La finestra è aperta ma non entra un refolo di vento. La gatta nera, Timpany, è montata sul davanzale. Spia il buio attraverso le stecche della persiana. Ho deciso di iniziare a scrivere sul Facteur Cheval, il Postino Cavallo, come lo chiamo io. Ora che sono sdraiato e posso finalmente ascoltare il mio corpo, mi accorgo che il malleolo destro non è ancora guarito. Una fastidiosa screpolatura – una pinzatura di ragno? un herpes? – mi accompagna da qualche settimana e io aspetto, probabilmente invano, che guarisca da sé.
Dicevo che ho deciso di scrivere sul Postino Cavallo, ma ancora non so bene cosa scrivere. L’idea iniziale era quella di un romanzo. Credo di avere cominciato a parlarne ad alcuni amici già tre anni fa. Ma finora non sono valse a niente le sollecitazioni, gli incitamenti, le spinte amichevoli di quelli che sapevano e che mi rimproveravano la mia inerzia. Ho sempre accampato scuse, rimandato, a volte adducendo motivi ragionevoli, a volte pretestuosi.
Adesso mi sono deciso, anche se la sto prendendo alla lontana. Lo scatto è avvenuto poco fa, mentre cincischiavo su internet dal mio portatile. Mi sono detto: il tempo, questo tempo che dedico a leggere le mail e i racconti degli altri, a guardare le foto delle signorine discinte, a stringere amicizie del cacchio su facebook, è tempo sottratto alla storia che voglio raccontare, la storia del mio Postino Cavallo. Per scrivere un romanzo sulla sua vita e la sua mirabolante, eccentrica, forse patetica avventura umana e artistica, dovrei documentarmi meglio, fare un viaggio nei luoghi dove è vissuto, studiare le carte che ha lasciato, le testimonianze su di lui. Ma se aspetto di sapere tutto, o il più possibile sul Postino Cavallo, non inizierò mai.
E allora via! Partiamo con quel poco che so, quel poco che ricordo senza badare alla cronologia dei fatti, all’esattezza storica; iniziamo con quello che non so ancora del Postino Cavallo e forse ne uscirà qualcosa, forse riuscirò ad arrivare da qualche parte.
Il Postino Cavallo, il Facteur Cheval, al secolo Ferdinand Cheval, lo sentii nominare per la prima volta ad una trasmissione di Radio3 alcuni anni fa. Era una trasmissione che parlava – mi pare o comunque mi piace pensare che parlasse – di precursori. Mi segnai il nome di un musicista barocco, creatore di una partitura per archi tutta dissonanze modernissime, quasi uno Schönberg ante litteram, anche se le dissonanze erano limitate a un breve movimento che imitava – mi pare o mi piace ricordare che imitasse – il canto di un gruppo di uccelli, come fossero quattro o cinque o sei melodie sovrapposte. E poi mi segnai il nome di Ferdinand Cheval, che impiegò trentatré anni per costruire il suo Palazzo Ideale, antesignano (o contemporaneo?) delle architetture di Gaudì e più di queste votato all’inutilità, perfetto esempio di costruzione gratuita, inservibile, non funzionale, per usare un gergo caro a Francesco Orlando, che agli oggetti non funzionali (purché in letteratura) dedicò un indimenticabile e corposissimo studio, frutto di anni di ricerca e di lezioni accademiche. Orlando non menzionò mai – che io ricordi – Facteur Cheval e, del resto, oggetto del suo studio erano le immagini letterarie di oggetti non funzionali, non gli oggetti in sé, e immagini letterarie del Palais Ideal non ce ne sono, se si esclude la breve autobiografia di Cheval stesso, e di cui non credo che Orlando fosse al corrente, pur avendo cultura e memoria fuori dal comune. La sua area d’interesse era limitata (si fa per dire) ai classici (di ogni tempo e paese, ma classici) non ai minori, agli irregolari, ai sommersi. Questa era roba per me, che mi sono sempre perso dietro alle cianfrusaglie, ai ritagli, ai trucioli, per me che sono sempre stato attratto più dalle eccezioni che dalle norme, o – come forse avrebbe detto Orlando – più dalle varianti che dalle costanti.

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Renzo Butazzi: Su una poesia di Torquato Gazzilloro http://trasciatti.it/2010/09/14/renzo-butazzi-su-una-poesia-di-torquato-gazzilloro/ http://trasciatti.it/2010/09/14/renzo-butazzi-su-una-poesia-di-torquato-gazzilloro/#comments Tue, 14 Sep 2010 16:35:06 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=480

Ape Regina

Appartiene all’adolescenza  del Poeta e al suo legame con la madre anche l’episodio ispiratore di questo Idillio agreste:                                           

Alle sette di mattina

s’alza l’Ape Regina,

vaga sull’aia, sorvola la risaia.

Riposa un colonnello dei dragoni

sotto l’ombrello

ma senza pantaloni,

e dietro un fico

l’Alvara soffia in bocca a Lodovico.

Suonano i tafàni la fanfara

ed una vacca

all’ombra d’un bemolle

fa la cacca. 

In quel periodo la famiglia Gazzilloro si era ormai trasferita da Vaglia a Busto Arsizio per seguire meglio lo sviluppo della banca di proprietà e la signora Andreina Gazzilloro – che come ho detto si dilettava nello studio del canto – soleva trascorrere le vacanze estive con i figli in una villetta isolata della campagna brianzola. Questo relativo isolamento le consentiva di dedicarsi a vocalizzi e gorgheggi in piena libertà

Più volte, quando doveva esercitarsi in albergo o nella casa di città, gli altri ospiti avevano protestato, i vicini si erano lamentati; le erano anche giunte lettere con insulti e minacce. Un giorno una serie di vocalizzi dal do al si e viceversa aveva fatto imbizzarrire il cavallo di una carrozza che passava sotto le finestre. Il vetturino si era infuriato e uno dei passeggeri, una signora in stato interessante, aveva rischiato l’aborto. Un’altra volta il carro di un vinaio era stato rovesciato dal quadrupede terrorizzato e le botti si erano sfasciate sul selciato. Dopo quell’incidente il delegato di pubblica sicurezza aveva diffidato la signora Gazzilloro “dall’esercitarsi di voce in modo tale da indurre irritazione, timore o qualsivoglia altra forma di turbamento in persone e animali”.      

Dunque donna Andreina preferiva fare i suoi vocalizzi in campagna, dove pare che solo le cicale e le galline dei pollai più vicinini ne patissero danno. Secondo le cronache di La Nazione Agricola le cicale ammutolivano e cadevano dagli alberi, fulminate e scosse dalla forza degli acuti, mentre le galline smettevano di fare le uova. Il quotidiano scrive anche che per evitare antipatiche lamentele, la signora dava in anticipo ai contadini dei dintorni piccole somme di denaro come rimborso anticipato per le uova non prodotte.

Una mattina Torquato e Titina si erano alzati che la madre era già uscita per l’abituale passeggiata in campagna, nel corso della quale si rafforzava i muscoli dell’addome e la voce con esercizi appropriati. La cameriera aveva preparato la colazione per i ragazzi ed era andata a fare la spesa.

Di solito, mentre facevano colazione, i figli potevano sentire i gorgheggi della madre anche se questa si era allontanata molto e aspettavano tranquillamente che tornasse. Ma quella mattina la voce si era interrotta presto, senza che maman ricomparisse. Titina non se n’era data pensiero ed era rientrata in casa, “attratta dalle arabe fattezze di un giovane tappezziere che stava sostituendo la carta ad una parete”, come scrisse nel suo Journalet intime. Il fratello, invece, rimasto a gingillarsi in giardino, vedendo che la madre non tornava e non avendo niente di meglio da fare, decise di andare a cercarla. Anche perché sperava d’incontrare Alvara Bruzziconi, una contadinella del podere vicino che gli “faceva sempre venire un certo formicolio all’inguine”. (Lettera 102 nella raccolta Lettere di Quatino (Torquato) Gazzilloro a parenti ed amici…).

Secondo il saggio del Perricone La spada e l’arbusto, il futuro poeta, esplorando il boschetto alla ricerca di maman, si sarebbe imbattuto in un ufficiale dei Dragoni (all’epoca impegnati nelle manovre proprio in quella zona) che si intratteneva con la signora Gazzilloro (l’Ape Regina, appunto). Sempre secondo Perricone il poeta ne avrebbe ricavato un forte turbamento, non sappiamo se per aver scoperto i due in colloquio intimo, se perchè il militare si prese con lui delle libertà oppure se per entrambe le cose. A conforto della sua tesi il critico cita un brano da Dragoni e cavalleria leggera, ecc.

Numerose testimonianze di cameriere, nobildonne, mozzi di stalla, maniscalchi e poeti, affermano che l’esuberanza sessuale dei Dragoni, soprattutto degli offiziali, era irrefrenabile. La lussuria di questi irruenti centauri in divisa li spingeva al trotto, al galoppo o di carriera verso qualsivoglia pertugio potesse placarla.

Sempre secondo il Perricone  un certo antimilitarismo del Poeta – chiaramente testimoniato dai versi “Pace, pace, il miglior fuoco è quello di brace” che gli procurarono forti critiche durante la spedizione di Massaua del 1885 – risalirebbe proprio a questo episodio. Tuttavia, prima di accettare senza verifiche l’ipotesi maliziosa dello studioso, vorrei ricordare che il Perricone, per quanto esimio critico, era balbuziente, piccolo, zoppo, strabico, con la gobba, il labbro leporino, l’alito fetido e le unghie incarnite: niente di più probabile che invidiasse e detestasse Torquato Gazzilloro per i suoi successi in campo femminile.

Gli ultimi versi di “Idillio agreste” sublimano quell’integrazione tra poesia e natura che un’osservazione attenta della campagna ci suggerisce. I tafani, forse eccitati dalla carnalità del dragone e/o della vacca, saettano per l’aere suonando la loro musica, mentre, quasi ipnotizzato da questa melodia (“all’ombra d’un bemolle”), immemore di tutto e di tutti, l’umile e generoso animale soddisfa una sua naturale esigenza.

Durante l’estate successiva a quella che gli aveva ispirato L’Ape Regina, Torquato Gazzilloro ripeterà la passeggiata in campagna. Ammaestrato dalla precedente esperienza si guarderà bene dal cercare la madre, che come al solito era uscita al mattino presto, per timore di incontrarla con qualche ufficiale dell’artiglieria a cavallo (i corpi militari si addestravano nella zona avvicendandosi negli anni). Si preoccuperà, invece, di cercare, sia pure con cautela, proprio quell’Alvara Bruzziconi che, dietro un fico, gli sembrava soffiasse “in bocca a Lodovico” e che sempre quando la vedeva (una volta o due l’anno), gli provocava il medesimo fremito al basso ventre.

La troverà dietro un pagliaio dove stava dando il granturco ai polli e, con la scusa di aiutarla, un chicco dopo l’altro, la seguirà. fino al fico suddetto. Qui si stenderanno all’ombra e cominceranno a passarsi per gioco un filo d’erba da una bocca all’altra. Il filo diverrà sempre più corto e sfuggente, finché l’Alvara farà capire al poeta che quel giorno dell’anno prima, mentre s’intratteneva con il giovane Lodovico, non stava affatto soffiandogli in bocca, come Torquato aveva pensato. E dopo un ultimo morso allo stelo gli rivelerà i segreti del sesso.

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Una storia del dott. Pistelli http://trasciatti.it/2010/09/09/trasciatti-una-storia-del-dott-pistelli/ http://trasciatti.it/2010/09/09/trasciatti-una-storia-del-dott-pistelli/#comments Wed, 08 Sep 2010 22:43:58 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=376

La cucina della nonna

di Alessandro Trasciatti

Una radio anni ‘60, un mobile da cucina bianco, un tavolo di fòrmica verde. Così si presentò la stanza agli occhi del dott. Pistelli. Certo, c’erano molte altre cose, ma la sua attenzione fu estremamente selettiva. Soprattutto il mobile era interessante. Non tanto per ciò che mostrava, ma per ciò che potenzialmente nascondeva. Semplice e geometrico riempiva quasi una parete, liscio e lucido.
Il dott. Pistelli ne conosceva il contenuto, ma solo in parte. Ricordava nitidamente le bottiglie di liquore dolce che sua nonna non offriva mai e che erano diventate oggetto di un divertito culto. Ricordava i piatti, le pentole, le posate. Ma in tutto quello spazio doveva esserci altro. Sarebbe stato semplicissimo saperlo: aprire gli sportelli e ispezionare. In fondo  era lì per prendere quello che gli fosse piaciuto, così gli aveva detto sua madre. Ora che la nonna non c’era più l’armadio era rimasto un oggetto senza padrone, un contenitore cui attingere senza timore di togliere strumenti all’altrui utilità, anzi, sarebbe stato un omaggio alla memoria della defunta  portarli via in un altro luogo, in un’altra casa, farli rivivere in un nuovo contesto che ne avrebbe risvegliato l’assopita funzionalità. Lui, oltretutto, aveva bisogno di oggetti d’uso quotidiano, ora che andava ad abitare da solo.
Eppure rimaneva lì, immaginando quello che  di superfluo o di non più utilizzabile poteva celarsi sugli scaffali dietro gli sportelli chiusi. Ricordò una scacchiera di legno comune, non bella, su cui da piccolo aveva giocato più di una partita a dama con suo nonno, sempre perdendo gli pareva. Era ancora lì dentro? Possibile che nessuno l’avesse più usata, che nemmeno qualche fantasma notturno avesse di tanto in tanto mosso le pedine per ingannare l’estenuante quiete dell’eternità? Non era questione di credenze infantili, di gnomi, di folletti. Era in ballo la nozione stessa di tempo, la sua asfissiante inconcepibilità. Era in gioco l’idea stessa di vita, dell’assenza di vita in quegli oggetti che necessitavano di una mano, di una volontà umana per essere tolti dall’inerzia della materia.

Aprire gli sportelli era la cosa più semplice da fare. Sì, avrebbe verificato l’interno, si sarebbe appropriato di ciò che gli sarebbe servito o anche soltanto piaciuto allo sguardo, al tatto. Avrebbe spostato gli oggetti, creato vuoti tra di loro con semplici gesti di sottrazione.  Lo spazio si sarebbe così ridisegnato, avrebbe avuto una nuova scansione. Un nuovo ordine, o disordine, del tutto indifferente si sarebbe instaurato dentro il mobile. Bastava aprire gli sportelli. Era quello il primo passo. Il più difficile.  Si fece forza e, uno dopo l’altro, li spalancò tutti…
Pensò che di là, tra i morti, doveva esserci una grande penuria, perché la nonna aveva portato con sé ogni cosa.

(In alto: foto scattata in Maremma, dalle parti di Scansano)

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Enoteca Iraq http://trasciatti.it/2010/08/05/enoteca-iraq/ http://trasciatti.it/2010/08/05/enoteca-iraq/#comments Thu, 05 Aug 2010 08:41:30 +0000 Trasciatti http://localhost:8888/wordpress292/?p=18 Post image for Enoteca Iraq

Iraq: l’enoteca di Akram, a Erbil
di Riccardo Lagorio

Probabilmente sono trascorsi 8000 anni da quando le popolazioni della Mesopotamia iniziarono a spremere uva, attendere un conveniente periodo per la fermentazione del mosto ed infine utilizzarne il risultato per cerimonie civili e religiose.
Nasceva così, grazie all’operosità di archetipi vignaioli, la cultura di uno dei prodotti più consumati al mondo, prendeva corpo il vino più antico al mondo, celebrato da assiri e hittiti. Malgrado i periodi bui di repressione cristiana – la più recente ha coinciso con il governo di Saddam Hussein, che mise al bando i costumi, finanche alimentari, della cittadinanza caldea e maronita del Kurdistan iracheno, che ha per capitale Erbil – sopravvive nei monasteri e nelle comunità cristiane l’usanza di produrre il vino.
Se per i monasteri è quasi d’obbligo poter contare su un quantitativo ancorché minimo del prezioso liquido per celebrare il mistero dell’eucarestia; per i contadini è fonte di reddito integrativo alla frutta ed alla verdura che dalle colline prende la strada delle città.
Peraltro nelle scarse fonti letterarie del VII secolo, prima dell’avvento della religione islamica, c’è evidenza di diffuso consumo d’alcool nei territori musulmani al tempo di Maometto, prima che lo stesso le dichiarasse haram(tabù).
Accanto allo scritto di Al Bukhari che registra un elevato numero di bevande alcoliche presenti nella penisola arabica, il lavoro di Omar Ibn al Khattab descrive bevande ottenute fermentando uva, datteri, orzo, frumento o miele.
I villaggi di Dhok, Haudian, Diana e Sersenk, a circa 400 chilometri da Erbil, e di Koisangiak, a 200 chilometri dalla capitale, sono tra i maggiori centri produttori di vino mentre la scuola di Shaklawa, diretta da monaci e che dista meno di un’ora e mezza di strada da Erbil, si distingue per la lunga tradizione di produzione di vino, accertata da oltre cinquecento anni.
Si può affermare senza errore che i maggiori produttori di vino in Iraq e in Mesopotamia sono proprio i monaci che vivono nei monasteri ed utilizzano il vino anche come strumento di ospitalità ai visitatori.
Akram Sliwa Sheer conduce uno dei tanti negozietti di alcolici che si possono trovare nel quartiere di Ankawa vicino alla chiesa dedicata a San Giuseppe, ma soprattutto intrattiene regolari rapporti con i piccolissimi produttori di vino delle colline anche grazie all’esperienza pastorale del fratello nel monastero di Shaklawa.
«Sono gli stessi cittadini a volere aperti i loro negozi tradizionali. In quest’area di Erbil, dove vivono perlopiù cristiani, si sono sempre venduti alcolici – dice – il governo attuale ci ha dato la possibilità di mantenere i nostri negozi; anzi stanno nascendo dei pub dove possiamo ritrovarci senza nessun pericolo perché i potenziali  contestatori non hanno accesso».
Nel suo negozio, come negli altri negozi della città che vendono alcolici, non è possibile trovare in vendita vino iracheno, ma dopo una amichevole chiacchierata Akram non esita a offrire tre tipologie di vino rosso che proviene dal nord del Paese.
Non è data sapere la varietà di uva utilizzata, ma solo che si tratta di black grapes, uva nera. Esiste un’altra tipologia di uva (il termine varietà sarebbe in questo caso troppo… sofisticato) denominata king grapes, che ha bisogno di più lavoro per crescere e con quella, dice, si produce pochissimo vino.
Alle temperature estive che sfiorano i 50 gradi l’uva ottiene un elevato grado zuccherino. I vini sono presentati in improbabili bottiglie, usate originariamente per contenere arak od ouzo greco, whisky o altro ancora, chiuse ermeticamente da tappi a vite.
Il primo che è stato per così dire stappato proviene dalle uve dell’orto del monastero di San Mattia a Bahshika, nel nord dell’Iraq.
Porta colore rosso intenso con riflessi mattonati, piacevolmente speziato di cannella e noce moscata al naso, alla bocca è vigoroso, imponente, piacevolmente grondante di susina appassita e lampone. Il vino del secondo bicchiere è dell’orto della chiesa di Alkosh, all’interno della zona protetta di Ninive.
Il liquido è denso, seducente, dal colore rosso intenso inaccessibile quasi. Ha poco più di un anno di vita.
L’olfatto è impressionato dal profumo di nocciola e frutta secca, scorgo un vago aroma di pepe e rosa che si dilata in bocca, la corteggia, la conquista, la penetra con ruvida grazia.
Il gusto è lungo, infinito, di elevata alcolicità ammorbidita dal grado zuccherino.
Il terzo vino proviene dalle campagne di Shaklawa; ha cinque anni ed è considerato da Akram un vino prezioso.
Il colore è ambra, sul fondo della bottiglia si scorgono sedimenti. Il naso percepisce le note alcoliche amplificate poiché manca del tutto della armonia dei precedenti bicchieri.
Si distingue per l’abboccato secco e le evidenti note alcoliche che lungi dall’essere stucchevoli conquistano per semplicità e compostezza.
Malgrado la piacevolezza dei vini, stiano tranquilli i vignaioli italici: non potranno mai temere la concorrenza dei monaci iracheni sotto il profilo commerciale.
Tuttavia questi elaborati enoici sono un appuntamento culturale imperdibile per raccontare la storia e la vita attuale delle comunità cristiane del Kurdistan iracheno, un orgoglioso drappo sventolato per esibire la propria tormentata appartenenza religiosa.

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