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Gianfranco Mammi: Vita di "Ridolini", raccolta dalla sua viva voce
Mer, 07/01/2009 - 05:50
Uno dei prossimi Libratti sarà questo Vita di "Ridolini", raccolta dalla sua viva voce, di Gianfranco Mammi. Ne pubblichiamo i primi due capitoletti.
Dal falegname
Mi chiamo Mammi Egisto detto Ridolini. A sette anni andavo a raccogliere le ghiande nei boschi per prendere quattro soldi da giocare a quintiglia alla sera nelle stalle. E poi si giocava anche ai bottoni che io avevo trovato l’America perché glieli portavo via dai pantaloni di mio babbo e poi dopo andavo a giocare cogli amici – dicevano “Come fai tu ad avere tutti quei bottoni.”
“Eh, ce n’ho io!”
A otto-nove anni o dieci ho cominciato a commerciare, insomma ho comperato una bicicletta per due lire e l’ho verniciata tutta con un dito e poi l’ho venduta a un commerciante per quattro lire, allora la gente lo prendevano un po’ per il sedere perché s’era fatto fregare da un bambino.
Dunque poi ho fatto il contadino fino a quattordici anni, quindici, e un anno ho zappato un campo, il campo di Sant’Antonio, che ci scambiavamo i buoi io e una ragazza, si chiamava Carolina, e poi dopo per mettere il granoturco bisogna spianare la terra con la zappa, fare i solchi, e piantare il grano con un pezzo di legno – un buco, un grano, un buco, un grano e via. Insomma, ho lavorato quasi tutto il tempo per il raccolto del granoturco, alla fine ho zappato tanto e quando andavo a zappare rubavo due uova a mia mamma da bere tutte le mattine per andare a zappare – allora buttavo i gusci in un cespuglio nel prato di un’altra persona; questa qua andava a pascolare le bestie e vede tutti questi gusci d’uovo e chiama mia mamma e dice “Gigia, guardate qua, c’è un nido nuovo”, allora la Gigia ha capito che ero io, ha detto “Lasciatelo fare, lasciatelo fare, lavora tanto!”
E così ho zappato e lavorato per tutto questo tempo a tirarlo giù, a spannocchiarlo, attaccarlo alla parete, alla fine ho preso ventotto quintali di granoturco. Allora con mio babbo ci ho detto “Babbo, io non sono nato per fare il contadino”, a quei tempi eravamo per contadini a Mocogno e in più avevamo il poderetto Ca’ d’Mami vicino a Polinago e i miei fratelli eran tutti a militare, tutti via, e son rimasto solo io con mio babbo e mia mamma, abbiam lasciato tutto il resto e siamo tornati nel nostro podere a Polinago. Allora lì ho detto che non ero nato per fare il contadino, il babbo dice “Be’, cambia.”
C’era un amico di casa, Rolando si chiamava, stava alla Capanna, che faceva il falegname e dice con mio babbo “Datemi quel bocia, che gli faccio fare il falegname.”
Allora io insomma sapevo che non mi piaceva però allora per provare ho detto “Be’, vado a provare” e vado in paese con un tovagliolo con dentro il mangiare per mezzogiorno, il panino e un po’ di vino, però mi mette a spianare un tronco nella cantina dove c’era già del riccio e veniva su un fumanone di polvere che allora ho detto “E’ peggio che fare il contadino.”
Allora mi sono avvilito, demoralizzato, sono andato fuori in strada che c’eran delle panchine, sono andato lì tutto un po’ pensieroso; arriva un mio amico che non mi aveva mai visto a Polinago nei giorni di lavoro, lo chiamavan Gésba cioè Gisberto, “Be’ ma cosa fai qua?”
Ho detto “Taci, va’ là, son venuto per fare il falegname ma c’è un polverone che senti, io non ce la faccio.” Allora dice “Ignorante, va’ a fare il sarto e il barbiere. Il sarto, ci son due ragazze, tre, vedrai che è pulito, lì non c’è polvere.”
Allora io ho preso un po’ l’orecchio, ho detto “Be’, può anche andar bene lì, ve’.”
Quando entro ancora dal falegname mi dice “Oh, guarda che io ho detto a tuo babbo se vieni qua per farti lavorare, insegnarti a fare il falegname, però se tu non ne hai voglia puoi andare a casa subito”, io mi son preso il mio fagottino e son andato a casa.
Quando son arrivato a casa mio babbo dice “Sei già qua?”
“Eh, babbo, non mi piace son già qua.”
“Va bene, va’ sopra a Ca’ d’Mami che ci son quegli alberi, va’ a dar giù ai rami che dobbiamo legarli alla vigna.”
Io insomma ho preso la mia accetta son andato a dar giù a questi rami, però anche lì ci sono le rughe che anche lì ti fan prurito e non era neanche bello neanche quello, però ho fatto finta di niente e qualche giorno dopo ho detto con mio babbo “Sapete che ho pensato di andare a fare il sarto e il barbiere?”
Allora mio babbo dice “Vai, vai – farai altrettanto.”
Perché noi abbiamo un destino, non c’è niente da fare
E invece lì mi sono infilato bene; dato che dal sarto bisognava lavorare un anno e mezzo senza pretese e pagare trecento lire per il taglio, per imparare a tagliare, allora questa Olghina, una di queste ragazze, aveva fatto l’anno e mezzo e insegnava alle altre a tagliare e io ignorantone stavo attento senza farmi scoprire; e come insegnava lei alle altre io ho imparato a tagliare e a disegnare, perché venivo a casa alla sera e disegnavo su delle assi quello che capivo, i vari modelli, e per fortuna perché il sarto sapeva che dopo tre mesi doveva andare in Africa perché era fascista, lo sapeva che non poteva stare lì un anno intero, allora vuol dire che mi aveva preso pensando “Lo faccio lavorare gratis poi lo mollo alla guazza e addio.”
Infatti lui è andato via e io ho cominciato a lavorar da sarto in tre o quattro mesi, eppure ce l’ho fatta, e dopo il barbiere anche lui mi dice “Mammi, dovete prendere la barberia”, “Come, devo prendere la barberia, sono abile?”
“Ah”, dice, “sì, perché io vado in Germania a lavorare, se mi va bene vi lascio la barberia, se non mi va bene tra sei mesi quando torno mi ridate la barberia.”
Ho detto “Va benissimo, per me va bene perché sono ancora giovane per fare il militare”, dico, “quindi non ci sono dei perché.”
Allora difatti ho preso mio babbo con le mucche e il biroccio, dopo una quindicina di giorni, e ho portato la macchina da cucire in paese dove c’era la barberia, poi ho cominciato a lavorare da sarto e da barbiere come niente fosse. Allora dopo ho preso due ragazze o tre a lavorare con me di giorno, alla sera facevo il barbiere, insomma, anche di giorno – lì ho tirato avanti un anno o due, anche tre. Perché poi il militare quando l’ho fatto?
Insomma ho tirato avanti sartoria e barberia per un bel pezzo, poi son andato militare, sono andato a finire a Parma alla Scuola d’Applicazione e lì, anche lì non mi son trovato bene, ho fatto sei mesi in cavalleria. Allora quando dovevo montare a cavallo mi veniva un accidente perché non mi piaceva neanche, invece era forse anche un divertimento. Insomma pazienza, da barbiere andavo ad aiutare il caporale ogni tanto, allora dopo sei mesi arriva un ordine, seicento cavalleggeri da andare in Russia e io ero in nota anch’io; allora avevo un maresciallo amico che ci portavo qualche salamino e m’ha detto “Mammi, se vuoi restare qua mandiamo un altro nel tuo posto” e io sempre l’ignorantone ho detto “No, io seguo il mio destino.”
Capirai, m’è venuto detto così, però vuoi vedere che io sono andato a finire invece che in Russia a Cecina Marina assieme a uno squadrone di cavalleggeri, barbiere, permesso tutte le sere, carica speciale insomma. Quelli che son rimasti alla Scuola d’Applicazione a Parma, tutti prigionieri in Germania. Ho detto “Guarda il destino della vita…”, perché noi abbiamo un destino, non c’è niente da fare.
(Nella foto: casa colonica lungo la via Emilia, foto Trasciatti)
sempre bravissimo, gianfranco, non vedo l'ora di leggere il seguito!
Eh, grazie mille, ma io ho fatto ben poco; ho solo sbobinato e dato un po' di struttura ai racconti di mio padre.
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La Dirigenza
Penso questo sia davvero il miglior lavoro di G!
hai reso tuo padre un personaggio...la sbobinatura è fatta (reinterpretata) benissimo, e la storia scorre via...ne prenoto già una copia
ps- aspetto sempre anche i casellanti...
gisy !
Gisy, ogni tuo desiderio è un ordine, appena esce avrai il tuo Ridolini. Un bravo a Gianfranco.
saluti
er direttant