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Aurora Borselli: Sposa bagnata, sposa fortunata
Dom, 01/31/2010 - 19:06
Segretissimo è il nome, non la faccia, né la voce.
A me si è raccontato, lo studente fuori corso, e io gli ho creduto, anche perché mi ha offerto una sigaretta e una coppetta di Perrier Jouet.
Io lo chiamo Pietro, non mi fa paura perché tanto non ho soldi da farmi rubare, né vasche dove fare lunghi bagni profumati.
Poi non ha la faccia da assassino, solo lo sguardo un po’ annoiato.
Dopo due mesi che la conoscevo l’ho sposata.
Non è che fosse innamorata, ma certo non poteva pensare che le avrei fatto quello che le ho fatto.
Lo so che è abominevole, ma i sensi di colpa sono svaniti quando ho speso i primi trecento euro per quella bottiglia di Perrier Jouet.
A dirla proprio tutta non è che mi sia fatto tanti scrupoli, né prima né dopo, gli scrupoli vanno bene per gli ipocriti. Io sono semplicemente pratico, i soldi li volevo, non che mi servissero per vivere, diciamo per vivere meglio.
Non voglio trovare giustificazioni, non me ne frega nulla di far capire il perché, non c’è un perché diverso da quello che ho detto.
D’altro canto se ripenso a quello che le ho dovuto fare quando ancora era viva, riesco anche a giustificarmi per quello che le ho fatto da morta. Ogni volta che mi cavalcava con quelle gambe secche rivestite di pelle moscia, trasparente al punto che potevo vedere all’interno dei capillari il suo sangue scuro ormai fattosi quasi polvere, un po’ come succede alla tempera contaminata dall'aria, mi ripetevo che sarebbe finita presto. Ma lei si dimenava come un’ossessa cercando di provocarmi un piacere di cui non riuscivo a intravedere neanche l’ombra.
L’avevo vista un paio di volte in televisione, in un’intervista girata nel suo salotto, forse in uno di quei programmi che raccolgono i pezzi di chi è stato qualcuno e li appiccicano ai pomeriggi di qualche universitario fuori corso. Forse facevo zapping mentre fumavo una canna, con un orecchio alla voce della vicina che urlava di non giocare a palla in casa.
Quando il mio professore mi propose di farmela conoscere, pensai che poteva essere interessante, avrei potuto sbirciare nel suo salotto mentre lei preparava il tè e vedere da vicino quel Renoir che teneva appeso sopra il divano. Cercava un assistente, lo voleva rigorosamente di sesso maschile, per trascrivere degli articoli e prendere appunti sotto dettatura, tra l’altro pagava bene. Con lei il problema non erano i soldi.
Da subito mi accorsi di piacerle. Mi invitò a sedermi toccandomi la schiena, ricordo lo smalto rosso sulle unghie corte.
Le pareti dell’ingresso erano zeppe di foto, per lo più ritratti di lei da giovane, in bianco e nero o color seppia. Dal vivo la sua faccia da settantenne era la stessa che avevo visto in tv.
Anche la voce era la stessa, una voce gracchiante da fumatrice incallita.
Di nuovo c’era il suo odore, un profumo entrante dal timbro floreale, leggermente alcolico, ma il sapore di vecchio si sentiva lo stesso.
Entrai alle quattro di pomeriggio, alle sei me ne uscivo da casa sua con in tasca il primo assegno, volle pagarmi in anticipo la prima settimana di lavoro.
Mi accompagnò alla porta, appena la luce esterna colpì la sua faccia pensai ora si sgretola. Invece rimase intatta, solo con più rughe.
L’unico modo che aveva per essere sicura che non me ne andassi era comprarmi, e io mi sono venduto volentieri, senza illuderla di provare per lei nient’altro che reverenza, ma sforzandomi di non farle capire che mi sarei venduto per molto poco.
Sapevo che non le sarebbe bastato scoparmi ogni tanto, voleva la certezza che fossi suo, almeno sulla carta. E non perché gli piacessi particolarmente, ma perché aveva poco tempo.
Ci ho messo meno a convincerla ad aggiungere la mia firma sul suo conto corrente che a firmare. Credo pensasse che almeno la stimassi. In realtà quando la guardavo vedevo solo una vecchia, osservavo aumentare di settimana in settimana la striscia bianca all’attaccatura dei capelli, mi sono sempre chiesto perché scegliesse di tingerseli neri se poi lasciava passare così tanto tempo tra una tintura e l’altra. Leggendo i suoi libri provavo ammirazione per quella donna color seppia appesa al muro dell’ingresso, ma per me quella non era lei.
La noia era che sceglieva sempre i soliti posti, e alla terza volta è difficile far credere ai camerieri che sei a cena con tua nonna. Cominciarono a guardarmi come si guarda una puttana, e io così mi sentivo, la puttana della vecchia. Prima o poi sarebbe morta e non mi andava di legarmi per sempre a quell’immagine stantia. Provai a suggerirle di cambiare locale, ma lei esigeva di scegliere, mi diceva che cravatta mettere, cosa ordinare per cena.
Le riempivo spesso il bicchiere, perché avevo notato che l’alcool la stancava, così mi risparmiavo di doverla addormentare una volta arrivati a casa.
A un certo punto deve aver capito che mi faceva ribrezzo, e si è incattivita.
Ha cominciato a pretendere che la insaponassi quando faceva il bagno, costringendomi a vedere in piena luce la sua schiena ossuta da vecchia, la spina dorsale era come un fossile di rettile, e più si accorgeva che cercavo di non guardarla più si spingeva in là con le richieste.
Come compenso avevo quello che volevo. Viaggi, scarpe, orologi, auto, ma non potevo condividere niente con qualcuno che non fosse lei.
La mattina passava più di un’ora allo specchio, a cercare di ridisegnarsi la faccia, di sopracciglia ne aveva poche, le labbra erano una porta a soffietto.
Una volta mi chiamò dalla sua camera, aveva un forte mal di testa e non riusciva ad alzarsi. Bussai prima di entrare e la vidi, con la testa sul cuscino, i capelli appiccicati al cranio e il viso completamente senza trucco. L’aspetto non era diverso da quello di una qualunque vecchia in una corsia d’ospedale.
Le portai un analgesico e aspettai che si addormentasse, poi uscii a correre.
Quando tornai a casa le luci del salone erano accese, la trovai in piedi con il suo vestito verde da grandi occasioni mentre offriva una sigaretta ad un giovane con la giacca marrone.
Rideva come un’oca.
L’uomo mi parve imbarazzato, perciò dissi che dovevo farmi una doccia e mi defilai.
Mi chiamò diverse volte sul cellulare, forse era preoccupata perché non le avevo detto che sarei uscito, ma non risposi.
Mi sedetti sul muretto della stazione, fumai tre sigarette accendendone una con il mozzicone dell’altra, fino all'ultimo pensai che sarebbe bastato sparire. Ma la fuga era troppo faticosa, perciò mi decisi a rientrare. In fondo avevo ancora la mia firma sul suo conto corrente.
La vidi sulla porta, con lo sguardo vittorioso di chi te l’ha fatta sotto il naso, di chi pensava di aver sparato l’ultimo colpo e invece se ne trova un altro in canna. Ma io ero stato più veloce di lei.
Mi comportai come nulla fosse, cercai di essere gentile e mi offrii di prepararle un bagno caldo.
Le sue labbra a soffietto si schiusero in un sorriso compiaciuto, cominciò a spogliarsi mentre io aprivo una bottiglia di Moet Chandon e accendevo un paio di candele.
Si ostinava a non tagliarsi i capelli ma non li scioglieva mai, anche di questo non ho mai capito il senso. Comunque, si accese una sigaretta chiedendomi di aiutarla ad entrare nella vasca, poi mi domandò se avessi capito chi fosse quell’uomo che avevo incrociato nel salone. Le chiesi se per caso non fosse un giornalista, ma pensai sarà la tua nuova puttana.
Mi rispose che no, non era un giornalista, e aspirò la sua sigaretta a pieni polmoni, ingiallendosi sempre di più a ogni tirata.
Decisi che quello era il momento giusto, pensai che per prima cosa mi sarei comprato quella bottiglia di Perrier Jouet, non prima però di averle ficcato la testa nell’acqua, tenendola sotto finché non la sentii più ribellarsi.
Ci vollero più di quattro minuti, nonostante fosse una vecchia con i polmoni pieni di catrame.
La tolsi dalla vasca che era ancora calda, la ripiegai come un foglio da infilarsi in una busta, dovevo fare presto perché di lì a poco sarebbe diventata dura come un legno.
La trascinai in camera, la posai sul letto e tornai in bagno ad asciugare il pavimento.
Le misi addosso un abito qualunque, aveva l'armadio pieno di vestiti fuori moda, non perché lo fossero stati anni prima, di moda, ma solo perché erano fuori dal tempo. Il cuscino si era impregnato d'acqua, lo misi ad asciugare al sole mentre finivo di prepararla per la sua passeggiata pomeridiana. La gettai giù dalle scale per evitarmi la fatica di portarla giù in braccio, ma prima le avvoltolai la faccia con degli asciugamani perché non si spaccasse qualcosa sbattendo la testa sul marmo e sanguinando ovunque.
La caricai in macchina senza toglierle gli asciugamani dalla faccia, volevo risparmiarmi di doverla guardare ancora, mi era bastata da viva. Poi ero sicuro che le era rimasto negli occhi quello sguardo da volpe sazia che aveva sulla porta, quando la mattina ero tornato dalla corsa.
Misi in moto senza pensare minimamente che quella cosa vestita di giallo, con la faccia coperta, adagiata sul sedile del passeggero, avrebbe potuto anche dare nell'occhio, ma proprio l’incoscienza mi aiutò ad arrivare a destinazione senza che nessuno mi notasse.
Estella passeggiava ogni pomeriggio, fino al laghetto, lo sapevano tutti, lo aveva detto anche in quell'intervista alla tv, quel pomeriggio in cui la vidi per la prima volta. Fu facile far credere che avesse avuto un malore e che fosse finita in acqua, poi era vecchia, nessuno avrebbe fatto accertamenti sul suo corpo ormai blu.
Tornando a casa mi fermai a comprare la meritata bottiglia, aspettai l'ora giusta per allarmarmi, fare un paio di telefonate e tornare sul divano a finire di gustarmi il mio Perrier Jouet.
ciò che appare stantio, dell'odore di carne smessa, è proprio il racconto, perché dedicarsi a un simile verbale? anche lo champagne? meglio tentare qualche aurora
La firma però ci vorrebbe. Altrimenti ne metto una di mio gradimento.
Il direttante
direttante sta per cariolante (portavano sabbia agli argini del Po)? immagino che lei voglia un combattimento di galli... non l'accontento, saluti per me l'alba che sta in Aurora
ce la metterei io la firma per un racconto così...
angelicuccia
No no, niente combattimenti plumati, son pacifista (in linea di massima). E' per la chiarezza dell'interloquimento. Comunque, visto che lei non mi accontenta, la chiamerò l'Anonimo.
sempre il direttante
vada per l'Anonimo, addirittura con l'a maiuscola; bellicosa anche l'altra signorina, velata dietro un diminutivo da lotta libera