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Mariapia Frigerio: Il piccolo ruffiano
Mar, 01/06/2009 - 15:18
Non era stato scelto il duomo, ma la Cappella un po’ defilata. La bara era posta nell’unica navata di quella piccola chiesa del paese. Così, quando l’uomo entrò, la vide subito, di noce lavorata, coperta di rose rosse. Una bara da ricchi.
E, dentro, l’ultima rappresentante della vecchia generazione della sua famiglia e, di gran lunga, la più longeva.
Ma adesso anche lei se ne andava e lo lasciava. Aveva, l’uomo, una moglie, dei figli e alcuni nipoti, ma…come avrebbero potuto compensare la solitudine e il vuoto dell’essere stato già abbandonato, già rifiutato, già liquidato?
Ora, però, all’abbandono psicologico si aggiungeva un abbandono tangibile. Un abbandono eterno.
E l’eternità era quel baratro su cui lui, adesso, guardava con disperazione.
Lui, il primo dei nipoti, il più bravo, il più amato. Lui che, più grande, aveva condiviso certe storie della sorella di sua madre.
La zia si era, in effetti, servita di lui bambino e lui aveva capito. Eppure l’aveva amata e aveva, silenziosamente, nell’unico modo possibile per la sua età, accettato. Ai bambini basta che qualcuno li voglia, che qualcuno li cerchi. Per quale motivo poco importa. Sono disposti a tutto per un po’ di attenzione. E lei gliela aveva data, quella attenzione, volendolo, per un lungo periodo, sempre con sé.
I viaggi dei tre si ripetevano, in effetti, costanti.
Lasciavano insieme, la zia, lo zio e lui, la vecchia villa sul lago per andare verso il mare, verso la grande città dove abitava il vero amore della donna.
La presenza del bambino era necessaria per ufficializzare la gita -la visita al cognato commerciante - e per fare da compagnia al vecchio zio, mentre lei si incontrava con l’altro.
Forse lo zio capiva, ma fingeva di non capire. Capiva le esigenze di una moglie tanto più giovane che gli era toccata in sorte per chissà quale motivo. Lui, del resto, era mite. Un vecchio mite possidente terriero che sapeva di dover fingere. Di fingere di non capire. Questo era quanto il destino aveva predisposto per lui. Questo era quanto tutti si aspettavano da lui.
Lui non era stupido, ma, signorilmente, stava al gioco.
Di certo, però, anche il bambino capiva. Capiva per intuizione, non per ragione. Capiva, ma non poteva fare a meno, ugualmente, di amare tutti e tre: la zia, lo zio e, anche, l’altro. Era, tutto sommato, una storia in famiglia.
Un giorno la zia decise di non volerne più sapere dei viaggi verso il mare e verso la grande città del porto. Decise che con l’altro aveva chiuso. Decise che per lei il tempo dell’amore era finito.
E l’abbandonò.
L’altro continuò ad amarla e a fare di lei l’unica donna importante della sua vita.
Ma il bambino, ormai uomo, non voleva, pure lui, lasciarlo. Tornava così, quando poteva, da lui, per commuoversi ai suoi racconti e ai suoi ricordi.
Gli piaceva sentirlo parlare di lei. Gli piaceva sapere che ci fosse qualcuno capace di amare, qualcuno per cui ancora esistessero storie d’amore.
Un destino cinico accomunava ora indissolubilmente l’uomo della città del porto all’ex-bambino. E, se al destino si potesse dare un nome, questo sarebbe stato abbandono.
L’uomo era stato –senza apparente motivo (o, forse, a causa di una sgradevole malattia)- abbandonato dalla donna. Ma la stessa donna, nelle vesti di zia, aveva abbandonato anche il nipote, quando aveva scelto di preferirgli il fratello minore, un bambino (poi un ragazzo) bello: biondo, ricciuto e con occhi azzurri.
Anche lui, il nipote più grande, era chiaro di capelli, ma, i suoi erano –come si sentiva spesso dire- degli spaghetti e i suoi occhi verdi. Nulla a che vedere con i colori dei principi azzurri. E, in effetti, il fratello più giovane a una festa mascherata (una di quelle immortalate negli album di famiglia) aveva vestito proprio quei panni. E le ragazze del luogo si erano perse d’amore per il bel giovane.
Così per un po’ di biondo, per un po’ di riccio, per un po’ d’azzurro un altro era stato sostituito a lui –un altro che era suo fratello- quando ormai lui non serviva più per nascondere i sotterfugi degli adulti.
Il nuovo venuto lo avrebbe poi soppiantato completamente nella donna ormai in là con gli anni, bisognosa di piaggeria e non più di amore.
Di quell’amore ancora tanto importante negli incontri e nei discorsi del nipote più grande con l’altro.
L’altro, un giorno, morì. Morì continuando ad amarla. Ma per lei sembrava non fosse mai esistito. Ora nella sua vita c’era posto solo per il bel nipote che, in mille modi, sapeva blandirla.
Il nipote più vecchio era ormai d’impiccio. Facilmente gli fu preferito il finto Abele.
Davanti a quella bara, prima dell’arrivo di tutti, di tanti finti Abeli e di tutti i veri Caini che, per forza maggiore, si sarebbe trovato intorno, l’uomo ripensò a quel mare, a quel faro, ai carruggi, ai vecchi alberghi in cui erano soliti scendere. Ripensò a quell’amore vissuto e poi negato. Ripensò a quel buco della serratura della porta del bagno da cui lui sbirciava la zia bruciare certe lettere e piangere. Ripensò al vecchio mite zio, fintamente ignaro del tutto, alla solitudine e alla sofferenza dell’altro, all’abbandono e al tradimento subìti.
Ma qui, mentre immaginava il suo piccolo corpo - reso sempre più fragile e minuto dall’età - chiuso in questa bara troppo grossa, ripensò con pietà anche a lei, causa di tante sue sofferenze. Ne rivide il sorriso, sentì nella mente la sua voce che ripeteva il suo nome. E cercò, per un’ultima volta, di amarla ancora.
Di amarla col cuore e col trasporto di quando era il suo piccolo ruffiano.
(In alto: Alte Langhe)
Un racconto i cui protagonisti amano e sono amati dal medesimo soggetto e che ci parla dei mille modi in cui si può vivere e declinare l’amore. Ognuno prende dall’amore quello che può e, alla sua maniera, ne vive l’infelicità.