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Nicola Dal Falco: Lavare il turco
Ven, 07/11/2008 - 19:12
La guerra sul mare non lascia tracce. Per trovarne devi camminare lungo la costa o capitare in un porto, quando si libera la banchina e resta uno straccio di membra, una testa ferita, un ragazzo turco.
Solo allora il mare comunica il suo moto incessante, la propria natura di messaggero inatteso, di pancia fremente, di parto. Allora, ciò che l'orizzonte non svela, lo trascina a riva il destino, lo butta ai piedi del mondo, lo fa vivere.
Così, senza nome, nel sale, approda un ragazzo, lo lasciano sul molo mentre la nave riparte. Quanto tempo passa dall'abbandono alla scoperta? Dalla partenza ai primi soccorsi? Tutta una vita fluttua in quel lasso di tempo. La possibilità è moira, un nodo sospeso al niente della risacca.
Poi, qualcuno interviene, semplicemente viene e il mare s'accomuna al deserto, vasto e zeppo di piste. Questo qualcuno ha intimità con gli ospedali, ferita anch'essa alla testa. E per consolare la pace, la calma terribile di quei posti si accosta al letto del nuovo venuto, ne sbriga l'urgenza del corpo.
Lavare il turco, di questo si tratta, riportando a terra il corpo, giorno per giorno. Cercare a tentoni il fondo, la storia che non si conosce. Il bisogno del tocco, della domanda, seguendo le tentazioni della costa, la riva del braccio, dell'omero, lo stupore di piedi immensi e l'arco perplesso della fronte. Lavare il turco è mimare un nuoto in apnea, i passi al buio nel corridoio.
Quando qualcosa si stacca dal mare e non senti la spina dei giorni muovere avanti e indietro la puntura del tempo, ecco che puoi, senza vaghezze, misurare la terra, da costa a costa.
Nicola Dal falco (in alto: Marina di Stefano Acconci)