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Gioia Perrone. POESIE
Mar, 05/20/2008 - 10:35
LA POESIA NON DÀ IL PANE. NÉ DENTI NUOVI PER QUELLI CHE TI SPACCA. G. Perrone [http://valvolamitralika.splinder.com/] ___________________________
Ho comprato un paio di sandali, Fernando
Li preferisco a quell’inquietudine di lisca, in libreria
Dove modici prezzi in copertina mi fanno frùsci frùsci sotto il collo
dove abbandono ogni arma tra i due primi righi della storia
E me ne esco nuda, al sole, senza forbici e sembianza
Calzare i piedi, Fernando, è come dare occhi ai passi
Camminare è come leggere- come quando dici Vivere è sognare-
come quando ( ma lo dici? )
Ti vengo a trovare, a leggere ogni cane, ogni negozio di pane
ogni tuo vestito strausato di nome e rigato di mille vertebre
Il tuo spalancamento di oceano steso
quella bruta visione a picco
di sagome fuggenti al momento.
Quindi, Fernando, non dirmi niente.
Avrò forza di vedere tutto,
di leggere il poema e il verme
La voce fragile di nuvole,nel niente del giorno
Ti do i passi e i sandali nuovi
Questa vaga ignoranza,
il mio arrivo.
***
C’è il finimondo dei fianchi Kelly, bambola amica dei gay,
in vetrina e una bambina che guarda
c’è un fegato che viaggia sopra le teste
c’è uno che lo aspetta disteso e lo prega
e un altro al torneo delle bocce che pensa ad Amanda.
Amanda ha i capelli neri e odiosa e dolciastra
ha una gonna pronta e un neo in testa
e ha un amore con Ciro che è un amore di sesso leggero
aperitivo.
C’è l’ora dell’oliva e del martini e quella degli sposi
e dei cerini per chi vuole darsi in dono un tono
altolocato e crede nei vecchi discorsi del fuoco.
E mentre Kelly è nella vetrina e la bambina la guarda
e mentre un fegato viaggia e l’altro lo aspetta
e mentre Amanda alza la gonna e beve il martini
e mentre gli sposi sposano i cerini
un uomo prende il treno per un pelo.
***
Le sagome dei sogni-balena
si vedono appena le punte dei capelli
spelati flebili di luce.
Siamo noi a pelo d’acqua
così azzurri nelle budella e
sonore le nostre ginocchia
quando facciamo l’amore
cavallette su carte
Scritte di notte:
Io non sono pronta a morire
io sono ignorante a morire
e non meno sfuggente del guitto
bianco di morticini tra corridoi silenziosi
E non meno veloce del tuo cuore che si mangia sillabe intere
E non meno veloce dell’America quando sgancia l’Atomica
io qui ho munizioni e non ho mani
per questo tuo arrivare da soldato
per questo tuo avvenire senza chiedere
e senza mani passa l’ottava ora
e guardo i cuscini e la carta vuota e i souvenir dello scaffale
e voglio non sia l’ora
ora che non voglio andare.
***
Il pedometro rileva cinquantunpassi
obliqui dopo l’edicola attraverso la porta della città
per un cornetto ripieno, dal posto dove mi trovo.
Si vede la stessa roba sempre, gli stessi omini-vai e vieni
tutti come niente a fare finta che niente succede
da sempre.
Di questa città conosco a memoria le caviglie,
le guglie pigolanti di avvocate, i passerotti,
i lavori pedonali e i lavori del filobus.
Prenderemo anche i filobus. Passeremo senza traccia
anche da dentro al filobus, da palo a palo davanti alle piccole rom
ai fiorai, ai colorifici, alle telecomunicazioni
alle sale da tè hi-teck , ai bambini hard-core
ai cani scalzi, alle mamme in blue jeans.
Dimenticheremo il discorso da dire a quello del giornale
puliremo le scale piano piano, piano a piano
lungo le tempie molli esposte ai finestrini,
noi fortunati di una mattina, avremo visione chiara dei fantasmi
sentiremo frusciare le vesti sui polpacci,
e gelati colare sui polsi delle fate natanti. Nuoteremo, sapremo
farci fiato vedere la riva all’attraversamento,
dimenticheremo il discorso, le bugie da dire, il sorriso da comunione
avremo da scartare un attimo buono
nel lilla del letto mentre l’altro dorme e noi l’osserviamo dormire
per i cali di pressione.Per i cali in genere.
Un bugigattolo di imbrogli solari, disposti in pellicole da ritirare.
So i parcheggi abusivi, Santacroce schizofrenica,
i caffè sodomiti di fine sabato straziato, gli accenti tarantini
i tuoi occhi spenti
e poi accesi
e poi accesi per le mie nocche di falena. Le cosce magre magre di notte.
Le ingiurie di questa città uguale a questa città disuguale
nell’amore che porta ai passi, ai sassi-doni del bianco e di alcuni
stracci di stanze che sono a mia disperazione, di alcune
strade doppio malto che intasano fegato e affini
di storie di confini senza coraggio d’essere chiare
come le prime vere estati inverni chiusi
dentro il mare.
Le piccate ragazze di corso Vittorio Emanuele, come sono uguali
ai palinsesti del prime-time.
***
Strofina e strofina, ci vedi attraverso!
Ci siamo inventati di tutto, di tutti modi:
i pennelli i colori le scarpe
le cose impensate le buste di caffè mai aperte i sogni i corpi untuosi
per guardareattraverso la cosa
a questa cosa da sfonnare
finestra invito prigione
a questa visione, e ancora
non si vede un cazzo.
Ci siamo inventati l’aeroplano:
dall’alto i baobab sono terminazioni nervose
abbiamo disegnato i progetti
abbiamo accartocciato rumorosamente i progetti
rigirato le chiavi, chiavi di ogni tipo, tra le dita
fatti omini e donnine di garbo
E abbiamo – povero Dio- scritto poesie
come lasciando tracce negli angoli
e premuto tasti e pennini e volato volato
premuto volato premura premuto
e venduto al mercato
e comprato al mercato la verza
innamorato di noi ogni strato, ingurgitato rigurgitato le foglie
soffritto affamati cipolle
slanciati sparati all’amore
da farci uscirelebolle!
Strofinare, strofiniamo ancora
celesiamoinventatetuttelecombinazioni!
(l’intero kamasutra di parole abboccate all’esca degli occhi,
all’attimo che qualcosa appare, se appare…)
”nna’ cosa vaga, compà!” – direbbe mio cugino
viene da questa parte…. Passatemi un foglio!
***
Il mio stomaco è caldo.
sotto la pioggia scimunita di questi giorni e le piante dei balconi e il grigio lungo viale messo al posto di dritti e antichi pini, maschi e verdi
tra una birra e l’ipotesi di un nuovo progetto dove
la parola “sociale” dice jak, ci sta sempre bene ogni 22 parole.
Il mio stomaco è caldo. E’ tutto caldo e risuona bene
sa di metallo qualcosa come il buco fossile di un pearcing alla lingua
mai desiderato.
Come questa nostalgia ossessiva del bianco
che è sempre più raro e sempre più “non so cchè”
sfasciato sulla mia dislessia.
Sognavo di fare l’astrofisica
mentre nei giardini altrui sceglievo le pietre più calde
per crogiolare la coda al sole e far luccicare la pancia..
Ora faccio un lavoro educato. Nessuno ancora si comporta male con me.
Alle zampine ho le solite scarpe, sempre più evanescenti,
ma si cammina bene.
Il mio stomaco è caldo,
ho una temperatura ideale, spettacolare, per accoglierti.
e vorrei accoglierti come un verde che scoppia in un millimetro di carne buia
quando un’idea geniale si diverte con le orecchie.
Vorrei riascoltare mille volte l’idea geniale.
Vorrei nello stesso istante sparire per sempre
e non per debolezza, si capisce, ma per una banale questione di estetica.
Il mio stomaco è davvero caldo,
mi viene il buonumore e ho dimenticato persino la testa che fa male
la neve che cade, ciao.
***
il mio cuore è un giocattolo al banchetto dell'usato. E' una di quelle cose che mi fanno impazzire. / e impazzirò. Questo è sicuro.
belle.
nedo vannini
bella.
vanni nedini
...non c'è verso, si spagina tutto. così non si va avanti. ma come mai? sarò costretto a mandare il Vannini a tirarti i piedi di notte.
Director sconfortatus
spaginate così si vedono meglio i punti deboli. si potrebbe dire così: in generale la scrittura in versi serve a tenere in piedi una prosa sgangherata.
detto da me conta poco perché come sa bene nautilio io detesto la poesia.
nelo vannini
La scrittura in versi serve a tenere in piedi una prosa sgangherata...sa che è una bella definzione di poesia? Però credo che chi si sente poeta non la prenderebbe tanto bene. L'Amato-Vannini, questo essere difforme, è l'unico che riesce a dire una cosa del genere. Perché forse disprezza davvero la poesia. Infatti disprezza pure i suoi libri una volta che sono stampati e pensa sempre che l'inedito sia meglio dell'edito, il venturo meglio dell'avvenuto. E fin qui, peggio per lui. Il problema è che se un critico scrive una recensione positiva a un suo libro pubblicato (cioè l'unico recensibile, giacché il critico non è un veggente che sa quello che l'Amato-Vannini tiene nel cassetto), automaticamente sarà spregiato e ritenuto spregevole. E qui il poeta dà fondo a tutta la sua ben nota maleducazione.
Il sottosegretario alle Recensioni
gioia con il papavero è opera mia
Tua di chi?
Nautilio
di Dunya.
Pur spaginata (e scusino se a me non pare troppo), la poesia prosaica (e dunque prOesia, direbbe il Vernacoliere) di cui sopra mi ha dilettato.
Grazie.
Sir Libeccio
Per Dunya: Dunya dicci qualcosa di te? Da che mondo vieni? Dove l'hai preso il fiore? Su, argomentati un poco, ci fa piacere.
Per Libecciotti: la spaginatura cui si allude qui sopra tu non l'hai mai vista, il testo come lo vedi ora è graficamente a posto. Devi immaginarlo senza gli a capo, tutto un mattone rettangolare di parole. Questo era capace, e lo è tuttora, di fare questo sito quando arrivano testi dai redattori (in alcuni casi soltanto però).
Il diresciatti
Direttore, il suo provvido rielaborare talvolta sfugge. Mi scuso per non averlo notato.
Talvolta sfugge anche lei. Per limitare danni altrove o per non produrne in loco?
Ai posteri, diceva un mio amico illetterato ma simpatico, l'altra sentenza.
Per Dunya: la foto è bella. E anche il soggetto. E spero anche te. Ergo, se in realtà sei un uomo ti consiglio l'operazione brutale perchè al direttore non piacciono le sorprese.
Ma dato che io non ti conoscerò mai dal vivo, mi inchino qualunque sia la tua dotazione esteriore ed encomio la tua foto artistica, e sornione origlio le tue ormai improbabili risposte.
Sir Libeccio
Libeccio sei un gommone.E comunque più che di posteri parlerei di postumi.
dir