May
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Dark0: Uomini e pecore, dodicesima puntata
Dom, 05/30/2010 - 11:07
12.
La bionda è profumata.
Eccessivamente.
Ride e so che sta ridendo per la mia Twingo nera. Ride di lei. Forse perché è posteggiata lì sola che sembra la Bianchina di Fantozzi nell'inizio del secondo tragico; forse perché ha fumato e pippato per tutta la statale 21 fino a Bersezio e adesso che l'aria fredda le sbatte sulle tette, la mia Twingo ferma immobile le appare come un cavallo bianco lynchiano; forse perché a tipe come lei viene sempre da ridere quando le metti davanti a certe cose grosse di fianco a certe cose piccole e la induci a fare un confronto. Una come lei sono sicuro che confronti come questi li sa fare bene.
Mi partono tre pensieri sconci legati al sesso da routine. Poi a seguire un pensiero culinario e un altro strano. Quindi cinque pensieri in tutto. I primi tre mi fanno dedurre che le mie fantasie sessuali sono da rinnovare al più presto perché abbia ancora senso spenderci del tempo a farle; il quarto che il mio piùlattemenocacao mi aspetta per essere addentato. Ma non mi va. Ora non mi va la barretta Kinder che ho comprato da Saverio. Decido di mangiarla quando sarà il momento. La bionda e l'uomo – che ho tanta voglia di chiamare “il tizio” e così farò senza troppi problemi – sono entrati nell'hotel Tardoun e io annuso ancora un po' il profumo di freddo di Bersezio e quello di muschio bianco della bionda.
Il quinto pensiero.
Al liceo le cattive compagnie non esistevano. O meglio: esistevano nella misura in cui tu non ne facevi parte. Frequentare una cattiva compagnia era facile come finire il primo livello di Donkey Kong oppure come inghiottire una Fruit Joy intera, senza masticarla. Le cattive compagnie si riconoscevano a distanza: nessuna ragazza nessuna; postazione fissa in angoli dell'edificio scolastico improbabili e sempre eccessivamente lerci (bagni, retro dei cassonetti, ripostigli per gli attrezzi della palestra); sigarette e/o roba da fumare al seguito di qualsiasi tipo.
Questi i parametri per i più. Facile facile. Però le cattive compagnie quelle vere, quelle che non esistevano per nessuno, erano più subdole e, mimetizzate, si inserivano benissimo nell'ambiente scolastico. Una schiera di insospettabili cervelli pensanti che dentro covavano odio antico. Odio per la classe dirigente scolastica – professori in primis, poi preside, insegnanti di sostegno – che si concretizzava in atti di vera e propria guerriglia extrascolastica atta a demistificare il loro potere.
La quinta colonna. E io ci stavo dentro fino al collo.
L'ironia è che, avendo ben in mente il modello standard della cattiva compagnia, ero convinto che da questa riuscissi a stare abbastanza alla larga da essere considerato un “bravo ragazzo”.
Mi sbagliavo.
Come accade spesso quando pensi di fare la cosa giusta e le persone che hai intorno ti sostengono e ti ripetono di non avere dubbi. Non c'è nulla di più giusto di quello che stai facendo. Non c'è da avere dubbi. Non c'è da porsi problemi.
Non ti poni il problema che bucare le ruote del prof di matematica è un atto da teppisti.
Non ti poni il problema che telefonare da una cabina sistematicamente ogni giorno alla prof di chimica e sussurrarle sconcerie è atto di molestia criminosa.
Non ti poni il problema che incastrare uno stuzzicadenti nel citofono del preside alle tre di notte e nascondersi nel cespuglio di fronte e appostarsi per vederlo scendere in pigiama e ciabatte, sia un atto da bastardi senza gloria.
No. Non te li poni questi problemi.
Perché tu sei un bravo ragazzo.
E non c'entra niente l'adolescenza problematica e l'incoscienza dei ragazzi e chesonogiovaniesidevonodivertire. No. Non c'entra. Eravamo perfettamente coscienti che quegli atti possedessero una giustizia intrinseca. Erano giusti. Giusti senza appello.
Era forse giusto piazzare un compito in classe proprio il giorno dell'inizio dell'occupazione e farlo fare ai soliti due che entravano sempre? Era forse giusto fare le interrogazioni a sorpresa, giustificandole perché a scuola bisogna venire sempre preparati? Era giusto segnalare ai nostri genitori che il loro figlio il venerdì entrava a scuola sempre alla seconda ora?
No. Non era giusto per niente.
I nostri atti erano ciò che riportava la bilancia della giustizia nella giusta posizione. Ciò che ci permetteva di riconciliare il nostro essere ragazzi con la condizione di studenti.
E io quella giustizia me la porto ancora dentro.
Quella giustizia dà forma al mio quinto pensiero.
Una giustizia sommaria da applicare all'istante e senza pensarci troppo.
Come se da quel Land Rover fosse uscito Porro, il professore di latino, che, il giorno prima degli esami di stato, ha pensato bene di fare interrogazione a tappeto. Ha usato proprio questo termine “a tappeto”. Neanche fossimo vietcong che aspettano il napalm. E a tappeto ha messo uno. Uno. Non due o quattro, che hanno la loro dignità di fondo. No. Uno. E fa media.
Fa media. Cioè vuol dire che anche se ci fosse stato un dieci in classe – e non c'era – la media di uno e dieci è cinque virgola cinque. Ovvero Quasi sufficiente.
Ecco: rigare il Land Rover di Porro con le proprie chiavi di casa, dal paraurti anteriore a quello posteriore, passando dal posto di guida e perdendo, nelle scanalature verticali della portiera, l'orizzontalità della linea, per noi della quinta colonna è stato un atto Quasi sufficiente. Artisticamente mediocre, bisogna ammetterlo. Ma d'altronde non c'era da strafare in quel caso, c'era solo da essere equi.
Quello ci sembrava equo.
Lo era.
Le mie chiavi di casa di Pisa sono nel cruscotto della Twingo. Non ho con me gli strumenti adatti per tracciare nessuna riga purificatrice.
Il tizio stanotte ha avuto fortuna. La giustizia ha lasciato passare per questa volta.
Sghignazzo e mi viene fame. Mi infilo tutta la barretta Kinder in bocca.
La assaporo poco e la butto giù subito.
La sento tutta nella gola.
È un sapore intenso, rigido.
Fine del mio quinto pensiero.