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Questa non è un'invettiva
Mar, 11/20/2007 - 04:15
Ricominciare da Roberto Amato
Da quando conosco Roberto Amato quasi non leggo più poesie, né tantomeno cerco di scriverne. E' stata una folgorazione, un risucchio, un'ondata che ha fatto pulizia. Ho sentito una tale sintonia, una tale concordanza d'immaginazione e di dolore e di divertimento verbale e di stravolgimento del senso comune da farmi credere, in un primo momento, che quelle poesie fossero mie. Poi, a mente fredda, ho pensato il contrario e cioè che solo quelle di Amato mi danno l'idea di ciò che dovrebbe essere la poesia, non le mie né quelle di altri, nemmeno dei più celebrati (sto parlando dei poeti viventi). So che questo può apparire, anzi, sicuramente apparirà iperbolico e gratuito. E allora cercherò di spiegarmi, di motivare la mia enfasi, di dare ragionevolezza alla passione.
Roberto Amato non è solo un bravo poeta, non è uno fra i tanti. E' un vero e proprio caso letterario. Scrive da sempre ma è solo a cinquant'anni che è uscito con il suo primo libro, Le cucine celesti (Diabasis, 2003), e ha vinto a mani basse un premio importante come il Viareggio. "Il miglior libro dell'anno" lo definì allora Cesare Garboli, e Manlio Cancogni, nella nota introduttiva, aggiungeva: "Erano poesie che cominciai subito a leggere, fermo in mezzo a un marciapiede. M'aveva incantato il colore bianco di quei versi: un bianco morbido di piume; piume di angeli, di oche, e animali domestici sparsi fra i tetti e i cortili di abitazioni immaginari."1 Perché quello che Amato fa con le parole è un lavoro davvero singolare, abbaglia e sorprende. E' un unicum che pone anche dei problemi a chi si appassiona di letteratura. Ho appena detto che la mia idea di poesia coincide con la poesia di Amato. Ma i suoi libri sono davvero libri di poesia? In quali termini ha ancora senso distinguere fra prosa e poesia? Secondo Andrea Ponso l'originalità della poesia di Amato risiede nel suo porsi "in opposizione con la linea canonica della poesia italiana del Novecento. Infatti, i primi nomi che verrebbero in aiuto, potrebbero intanto essere collocati negli ambiti della prosa, seppure ad alto tasso poetico...Kafka in primis, poi Bruno Schulz e, forse, per restare in ambito nazionale, potremmo fare anche il nome di Giuliano Scabia."2
Amato non è certo l'unico a muoversi in un territorio di confine. Anzi, si potrebbe dire che da quando esiste il verso libero - cioè da quando non c'è più la necessità di rispettare precise regole formali affinché il lettore ascriva senza tentennamenti un testo al dominio della poesia - gran parte di essa abita un territorio di confine. Ma Amato ci abita a modo suo, perché lui, oltretutto, fa un uso molto attento della metrica, della scansione del verso, degli accenti. Eppure tende inequivocabilmente verso la prosa, nel senso - forse - che indicava, diversi anni fa, Giorgio Manacorda, sia pure non parlando di Amato, allora ancora inedito (non so se, in seguito, Manacorda lo abbia mai letto):
Ci interessa...una poesia che "vada verso la prosa", nel senso che non punti solo a enunciare sconnessi picchi di più o meno luminose metaforicità o a dimostrare l'impronunciabilità del mondo, ma vada verso il mondo, ne sia una delle espressioni più significative: parli della vita e del soggetto che la vive e quindi la esprima a partire dalle proprie esperienze, non disincarnandosi in astratte "correlazioni oggettive", siano esse mistiche o linguistiche. Non ne possiamo più del Nulla e dei suoi sacerdoti: sul finire del secolo bisogna ripensare la poesia e la sua storia...L'importante non è che la poesia sia narrativa, ma che, dentro, ci sia la prosa della vita o, se volete, addirittura, la prosa della poesia. L'importante è che la poesia non voglia essere solo poesia. L'importante è che ci sia l'onesta volontà a essere qualcos'altro che poesia, come ebbe a scrivere Pier Paolo Pasolini3
Manacorda descriveva un territorio, indicava un sentire comune a poeti molto diversi tra loro ma che alla fine potevano essere ricondotti ad una stessa tradizione, essendo tutti eredi della latinità, di Orazio in particolare: "Guido Gozzano, Umberto Saba, Bertolt Brecht, Sandro Penna, Wystan H. Auden, Pier Paolo Pasolini, l'ultimo Montale, il primo Pagliarani e, per calare di generazione, Patrizia Cavalli e Renzo Paris."4 A questa pattuglia di poeti in cammino verso la prosa potremmo aggiungere Amato, ultimo solo in ordine di apparizione. E sottolineerei, comunque, che la sua è una poesia effettivamente narrativa, cioè che contiene in sé elementi di racconto, e al tempo stesso fortemente concentrata, semanticamente densa. Per cui, come dicevo all'inizio, davvero non ho dubbi che la poesia, in generale, sia questa. Ma i dubbi mi vengono immediatamente dopo, se passo ai versi di qualche autore vivente acclamato, riconosciuto come poeta. C'è qualcosa di radicalmente diverso in Amato, qualcosa che stride con ciò che siamo abituati a considerare poesia, da farmi oscillare di continuo tra due pensieri opposti: quello di aver capito tutto e quello di non aver capito niente. La verità sta nel mezzo? Non credo. La verità sta nel fatto che la "scrittura" di Amato (abolisco provvisoriamente la definizione di genere) è fatta di contraddizioni, ne è intessuta, imbevuta fino al midollo. E' contraddizione in forma di parola. Forse per questo anch'io oscillo nel parlarne. I due poli opposti convivono senza potersi eliminare: prosa e poesia, narrazione e lirismo, chiarezza quotidiana e densità notturna della parola.
Leggendo le recensioni uscite in questi anni - e in questi mesi - ai due libri di Roberto Amato, ci si accorge che ormai alcune cose, alcune caratteristiche della sua poesia, sono date per assunte. Innanzitutto - già lo dicevo - la narratività, il fatto che quella di Amato sia una poesia che racconta e che i suoi libri mimano, in un certo senso, i romanzi. L'io poetico è anche un io narrante, ci sono dei personaggi che si imprimono nella memoria, i libri sono divisi in capitoli, in sezioni incentrate ognuna su uno di questi personaggi o comunque su una determinata situazione narrativa o ambientale. Nell'Agenzia di viaggi (il suo secondo libro, Diabasis, 2006), per esempio, c'è tutta una serie di figure tratte dal quotidiano ma con caratteri così spiccati e così eccentrici da diventare eroi da epopea tragicomica. C'è l'ascoltatore di musica in vinile, il cuoco dei defunti, il profumiere itinerante, il padre che si crede una capra, Nedo il brucatore di gerani, Elsa la vicina di casa panciuta e popputa..., sono personaggi che - come dicevo - si imprimono davvero nella memoria come personaggi romanzeschi. Però, a differenza di un romanzo manca una ordinata sequenza cronologica degli eventi, non c'è una concatenazione logica, un orientamento causale. Non è nemmeno una "poesia-racconto" di ascendenza pavesiana, più distesa, quella, più discorsiva, cadenzata in versi lunghi e piani; non lo è anche perché è diversa la prospettiva storica, in Amato non c'è niente dello "sperimentalismo realistico" (Sanguineti) di Pavese, ultimo esito della poetica neorealistica. Ma c'è comunque lo sforzo di ricostruire un contesto, anzi un vero e proprio mondo.
Qui siamo oltre il realismo, oltre il referto quotidiano, oltre lo spaccato di vissuto. C'è il mondo esterno e quello interiore mescolati insieme, l'esperienza dei sensi e i voli (o le paludi) della mente, il diurno e l'onirico. Contraddizione in forma di parola, dicevo prima. Ma si potrebbe anche dire ambivalenza della parola e del pensiero per indicare questa caratteristica distintiva di Roberto Amato. Il discorso scivola continuamente da una classe logica a quella opposta, dall'alto al basso, dal fuori al dentro, dal sopra al sotto, dal letterale al metaforico, dall'astratto al concreto.5 Il gioco degli slittamenti analogici è continuo. Si dirà che in poesia è normale procedere per somiglianze e opposizioni, che il linguaggio poetico è analogico. Ma Amato ha trovato il modo di dissimularlo, come fosse quella la norma del linguaggio. Potrei fare molto esempi di questo procedimento, di questo falso argomentare, di questo ragionar sbagliando che è un'invenzione di Amato e lo distingue fra mille. Prendo una pagina da "Il viaggio di nozze", penultima sezione dell'Agenzia di viaggi: L'io poetico-narrante pensa alla moglie e dice:
Le ho detto che già prima di conoscerla
mi piaceva sfogliare le riviste mediche
e soprattutto i vecchi manuali
di psichiatria infantile
perché
io mi ci sono sempre ritrovato
ma in fondo
ci trovavo anche lei
che fa tutte le cose al contrario...
Come faceva a ritrovare la moglie nelle riviste mediche se ancora non la conosceva? E' un discorso insensato, illogico, a meno che non si voglia attribuire al poeta una sorta di pre-scienza, di pre-veggenza. Ma non è così. E' che nella sua mente illogica e infantile, tutto convive al presente come nell'inconscio, i rapporti di causa e di effetto, l'ordine cronologico degli eventi è abolito, o meglio, è reversibile. Infatti, la moglie fa tutto al contrario
(perché dice che tutto
è il contrario di tutto
e così non si arriva mai a nulla)...
Così un modo di dire colloquiale, da frasario quotidiano (dire tutto e il contrario di tutto) diventa affermazione ontologica: tutto è il contrario di tutto, e quindi ci innalziamo (apparentemente) di livello, il discorso passa dalla comunicazione ordinaria, anzi, stereotipata, alla considerazione filosofica, che è poi una filosofia da chiacchiera al bar, perché se tutto è il contrario di tutto non si conclude, non si arriva da nessuna parte,
non si arriva nemmeno a Roma
(le dico io)
e sì che a Roma portano tutte le strade, Roma è veramente un luogo comune del discorso, della poesia, del viaggio, del turismo, dell'umanità tutta. Ma il poeta e sua moglie, che nella finzione libresca gestiscono un'agenzia di viaggi, sono la negazione stessa del viaggio
infatti a Roma
non ci siamo mai stati
certo ci piacerebbe
vedere (come tutti)
il Colosseo
e il Vaticano... La Cappella
Sistina
il Giudizio Restaurato
ma...
non è proprio possibile6
E tutto nasce da quel "non si arriva" che slitta da un'accezione all'altra (non si arriva a nulla, non si arriva a Roma), tutto nasce dal gioco verbale tra il significato astratto (non raggiungere uno scopo) e quello letterale (non raggiungere un luogo geografico, fisico). Da qui di nuovo si rimbalza nell'astratto, anzi, nell'improbabile realtà di una coppia di finti viaggiatori, di negatori del viaggio, di individui stanziali votati all'organizzazione di viaggi altrui ma che sono impossibilitati a muoversi. E tutto questo si srotola sulla pagina rapidamente da un verso all'altro. Senza che ce ne accorgiamo siamo presi da un vortice di incongruenze che suscitano il sorriso perché sembrano discorsi senza senso, anzi, proprio perché sono discorsi senza senso, ma con l'apparenza di un ragionamento, di un'argomentazione razionale. I "perché", gli "infatti", gli "e così" di Amato è raro che dimostrino qualcosa. Di solito stanno lì per sviare, sembra che conducano ad una argomentazione stringente e invece non sono altro che ponti tra categorie del pensiero inconciliabili, unite solo da qualche parziale somiglianza, geniali cortocircuiti linguistici.
Il gioco degli opposti permea ogni strato della scrittura di Amato, così che i suoi libri danno vita ad un'epopea domestica e al tempo stesso misteriosa e fantastica dove c'è - per dirla con Simona Niccolai - "un doppio movimento capace di trasformare i particolari più minuti in un universo di indicibile complicazione e viceversa, capace di avvicinare l'universo come se fosse la parata di stoviglie di una dispensa mentale"7. Si potrebbe anche dire che le piccolezze del mondo vengono elevate a dignità celeste e, al contrario, le altezze siderali vengo abbassate ad uso e consumo dei terrestri. Si prenda, ad esempio, un brano de "Il Profumiere", dove il carretto di un ambulante sale i cerchi concentrici del mercato come fosse in paradiso, e dove il paradiso è affollato di avventori come un surreale mercato:
Il carretto è perfetto
e svolge il mondo sotto le sue ruote
e sale sale
verso gli ultimi cerchi del mercato
stamani vado
tra gli avventori (ai piani bassi)
del primo Paradiso
gli venderò senz'altro
sacchetti di lavanda per le ceste
dei corredi
domani potrei scendere
o salire
a profumare armadi e cassettiere
camicie e scapolari
lo so
si fa così
me l'ha spiegato bene il vecchio Argo
a giri lenti si conquistano i clienti
si comincia dal basso
dalle donnine che profumano il bucato
(le contadine scendono
al mercato)
e passo passo
siamo saliti fino agli Angeli Minori...8
Questo procedere per centri concentrici o per spirali è un movimento a cui è invitato anche l'avventore (e il lettore); la perizia del profumiere-poeta sta tutta nell'allestimento della merce sul carretto (e delle parole sulla pagina). La logica del venditore che sistema le bustine profumate secondo un ordine rigoroso è anche indizio di una visione del mondo, di una strategia comunicativa così sottile e sofisticata da rischiare di non essere capita, anzi, nemmeno percepita. E forse è meglio così, perché a volte guardare gli oggetti troppo a fondo può dare le vertigini, l'eccesso di evidenza può portare sul bordo di pensieri impensabili, paurosi, e bisogna avere le spalle larghe per sostenerne la vicinanza:
Ma nessuno considera
la minuscola immensità
del mio lavoro
certo il carretto è piccolo
ma i flaconi i barattoli i sacchetti
le bustine di raso
non sono mica messi a caso
seguono se non proprio
un ordine celeste almeno un piano
una segreta strategia che tende
al centro
del carretto
dove le cose sono tutte
in primo
piano
e dove l'occhio (sia pure
smaliziato) del cliente
(che è solo un occhio
umano)
forse non vede niente9
Narratività e ambivalenza, dunque. Ma un altro tratto fondamentale - e tipicamente, inguaribilmente poetico - della scrittura di Roberto Amato è l'ossessione per l'aspetto ritmico del verso: "settenario più endecasillabo...quinario più novenario...doppio settenario", rileva minuziosamente Silvia Morotti10. Basta sentirlo leggere, Amato, per capire quanto studio dissimulato ci sia dietro l'apparente facilità del verso, fatto anche di endecasillabi spezzati che un altro, un'altra penna (e un'altra voce) avrebbe steso certamente per intero. Le parole sarebbero state le stesse, ma non ci sarebbe stata la musica che è così tipica dei versi di Amato, con le sue pause, i suoi accenti. Ecco, è una questione di accenti. E' sempre possibile fare una lettura "grammaticale" delle poesie di Amato, seguire il discorso come fosse una prosa piana. E questo, a una prima lettura, è anche utile (lo è spesso in poesia). Ma poi, quando più o meno si padroneggia il senso complessivo, si vede che le sospensioni del verso, gli enjambements, i monosillabi isolati (e, ma, sì, no...) hanno la funzione fondamentale di fare posare la voce su una parola anziché su un'altra, di sottolinearla, di dare alla lettura l'andamento dell'oralità. Non è facile leggere bene le poesie di Amato, "eseguirle" correttamente, ma lo si può fare. Imparare a leggere una poesia di Amato è come imparare un pezzo al pianoforte, cambiano i segni del linguaggio, le convenzioni grafiche. Ma il principio è lo stesso. E forse non è inutile ricordare che Amato da giovane ha studiato musica, che il suo è un orecchio musicale e che ancora le sue mani, quando vogliono (cioè quasi mai), si muovono con leggerezza sulla chitarra. Cancogni, con felice e fantasiosa intuizione, parla del mondo poetico di Amato come di un "rossiniano universo" e immagina i suoi versi "con l'accompagnamento di una musica metaforicamente bandistica"11. Discorso, questo, ripreso più volte dai recensori e avallato dallo stesso Amato che, in più di un'occasione, si è dichiarato incline all'Opera Buffa, al tragicomico, alla farsa triste.
Ed ecco così l'ironia, altro elemento fondante della poetica di Amato. Capita di rado di imbattersi in una poesia che si prende così poco sul serio, per lo meno nel panorama italiano. Non che manchino gli esempi notevoli di ironia e giocosità: Palazzeschi, Rodari, Scialoja... Però l'aura della poesia italiana - anche contemporanea o forse specialmente contemporanea - è un'aura molto seriosa, iniziatica e direi anche libresca, molto libresca. Amato, invece, si permette di riandare con la mente ad immagini infantil-religiose, di compiere regressioni così confortanti da essere dissacranti. La fede religiosa appartiene a un altro tempo della vita, è cosa da "bambine credule", non credenti, si badi bene. L'oggetto stesso della loro fede viene sminuito, ridotto al rango di diceria, favola, superstizione. Pensare alla Pasqua o allevare grilli si equivalgono. Il ritorno improbabile all'innocenza, alla stoltezza puerile, è qualcosa di sognato e al tempo stesso disprezzato. E' la condizione amara dell'adulto che con rabbia vorrebbe che il tempo si invertisse ed invidia la fanciullezza altrui perché la propria è irrimediabilmente trascorsa:
certo sarebbe bello parlarti di queste cose
che sono consolanti come la Pasqua
come l'ulivo tra le dita sognanti
delle bambine credule
sarebbe bello dirti in tutta franchezza
che qui c'è un grillo e che lo allevo
come fossi suo padre12
Oppure si veda il rovesciamento irriverente che subisce un'iniziale moto di autocommiserazione sulle proprie sofferenze interiori, assimilate rapidamente ad un prosaico malessere fisico:
che splendido dolore
mi coltivo
più bello di un geranio solitario
e nero
è quasi un mal di denti
ma più interno
più verso il fondo
starei per dire
della testa
se non ci fosse l'anima
di mezzo
voglio dire lo spirito13
E, infine, si veda ancora come la nostalgia struggente delle occasioni perdute, lo strazio della vita non vissuta, Amato li faccia suoi mescolandoli a suggestioni favolistiche e popolari (viene in mente il pane imburrato "di sopra e di sotto" promesso a Pinocchio dalla Fata Turchina) e risolvendoli in una autoironica rassegnazione alla solitudine, visto che, nel cervello di un uomo all'antica - così disarmante da non suscitare irritazione ma tenerezza - prendere moglie o prendere una domestica si confondono, e sono in ogni caso imprese troppo onerose:
Il cielo scivola
mi pare
sull'asfalto imburrato
o è una voglia di pane
di tovaglie all'aperto
una festa di nozze
le mie nozze in un campo
di ginestre odorose
Dio se non fosse così tardi
mi piacerebbe prender moglie
o almeno una domestica
ma chi lo sa
quello che costano le spose...14
Ha ragione Andrea Ponso, quando dice che quella di Amato è
Una poesia...che può essere facilmente confusa, per le situazioni esteriori e per certo uso dei materiali, ad una temperie di tipo rinunciatario e crepuscolare: niente di più sbagliato...La poesia di Amato...è al contrario una poesia a suo modo profondamente crudele, lacerante e perturbante, dove chi si lascia portare da quel suo cantare sommesso e come in sordina rischia di rompersi la testa per un eccesso lancinante di leggerezza e di fruibilità.15
Nel panorama poetico nostrano, mi pare di vedere un atteggiamento assai diverso, dominato da una cronica, diffusa, "pesantezza". Direi che sia operante un vero e proprio pregiudizio, per cui fare poesia vuol dire impostare la voce, indossare vesti paludate, cercare di esprimere l'inesprimibile con parole alte, arcane, di miscelare i segni così da creare una nebbia dietro la quale, spesso, complice l'apatia del piccolo pubblico della poesia, si nasconde poco o nulla:
La debolezza, l'opacità comunicativa, l'oscurità o, più precisamente, l'inconsistenza semantica di molta poesia di oggi deriva dal fatto che quella piccola cerchia di lettori fa finta di capire, o accetta il fatto che non venga detto quasi niente e che non ci sia quasi niente da capire.
Il paradosso è questo: la fuga dal significato viene accettata dogmaticamente come significativa...16
Roberto Amato è invece un poeta consistente, fantasioso, ironico di un'ironia che maschera appena il dolore dell'esistenza. La sua è una poesia di esilarante malinconia e di struggente giocosità.. Narratività, ambivalenza, cantabilità e ironia, ho detto finora. Ognuno di questi quattro elementi non è in sé originale, esclusivo di Amato. Il loro intreccio sì. La risultante di questi vettori è una poesia fruibile, più facile della produzione poetica media (nonostante le difficoltà di "esecuzione" che dicevo sopra), una poesia che potenzialmente potrebbe essere popolare, se ancora ci fosse l'abitudine di leggere qualcosa. Noi, si sa, siamo un popolo di poeti ma non un popolo di lettori. Tutti scrivono poesie e nessuno le legge, così la poesia non ha pubblico e non ha mercato. E i poeti si lamentano di questa situazione, ma dovrebbero fare un salutare mea culpa, perché se il pubblico è sordo, i poeti sono quantomeno balbuzienti. In un bell'articolo del '93 Franco Brevini scriveva cose che non hanno perduto la loro attualità:
I versi che si producono sono di solito lontani anni luce dall'esperienza della gente, sembrano fatti apposta per respingere il lettore, per non accompagnarlo nel suo quotidiano...Ma perché dovremmo leggere quei libri? Come può una poesia, che sembra prendere norma esclusivamente dal proprio interno, che ha addirittura programmato la propria illeggibilità, che a forza di scarti dallo standard e di estraniazione è approdata all'opacità e all'incomunicabilità, come può una tale poesia lamentare l'indifferenza del pubblico?
E ancora:
Per capire fino in fondo quanto sia difficile il momento che sta attraversando la poesia sul piano del consenso sociale basta pensare per contrasto alla popolarità che la circondava ai tempi di Carducci, Pascoli e D'Annunzio. Oggi i livres de chevet della borghesia, posto che ancora ne esistano, non sono più libri di poesia. A cavallo del secolo invece la poesia formava la dotta ricreazione di medici e avvocati, che in essa potevano ritrovare le mitologie della loro classe...
...Perché il quadro sia veritiero va tuttavia aggiunto che una serie di indizi - penso ad autori molto diversi fra loro quali Magrelli, Neri, D'Elia, Marcoaldi, Bocchiola e, prima di loro, il più vecchio Giudici, con il suo sperimentalismo sul bla bla quotidiano - induce a credere che sia in atto un lento processo di fuoriuscita dall'io e da quella superfetazione metaforica che ne è il più scoperto correlativo retorico, per riappropriarsi della "disertata realtà", secondo l'espressione di uno di quei poeti. 17
Ebbene, io credo che bisognerebbe fare un'operazione di ri-alfabetizzazione dei lettori, insegnare loro che una poesia leggibile e godibile c'è. Ma prima ancora, o contemporaneamente, andrebbero ri-alfabetizzati i poeti stessi. Bisognerebbe convincerli, che so, a smettere di scrivere per qualche anno, costringerli a ripensare alla loro vita o magari a fare qualche lavoro pratico (Amato vende scarpe nel negozio della moglie). Il lavoro poetico di Amato forse non riusciamo a comprenderlo per intero. La sua portata ci sfugge, bisognerà che passi del tempo, ma credo che la sua sia veramente una scrittura sperimentale e al tempo stesso comunicativa, al di là di tutte le avanguardie e le neoavanguardie, perché davvero si sta addentrando in un territorio nuovo; una scrittura che chiede ai generi letterari di essere riformulati; una scrittura che potrebbe riconciliare la poesia con il suo pubblico giustamente latitante.
Alessandro Trasciatti
1 Manlio Cancogni, "Lui, suonatore mirabile", nota introduttiva a Le cucine celesti, Diabasis, 2003, p. 5.
2 Andrea Ponso, recensione a L'agenzia di viaggi, fornitami da Roberto Amato ma rimasta, a quanto ne so, inedita.
3 Poesia '94, Annuario, a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 1995, pp. 13-14.
4 Ibidem, p. 14.
5 Scrive a questo proposito Silvia Morotti: "Talvolta assistiamo a dialoghi in cui lo slittamento semantico segna il passaggio dal favoloso al concreto e viceversa: così, nello scambio di battute tra i familiari della casa eternamente in Usucapione, i "sacrifici" per le spese del mutuo divengono, nelle parole della nonna, "sacrifici/umani" e, con un ulteriore salto, il muoversi delle mani di lei dà vita all'immolazione di un'allodola (cfr. 52): - Sì siamo nelle spese/dovremmo fare un mutuo/e così tanti sacrifici...//che dici?- rimbeccava la nonna/il Giardiniere.../- zitto e addormentati/da molto tempo in questa casa non si fanno/sacrifici/umani//(faceva strani gesti con le mani/come se disegnasse nell'aria vespertina/code/e piume/o sistemasse fiori dentro un vaso)//hai immolato un'allodola/ma te la sei mangiata/(per caso non te la ricordi)/e ancora..." (S. Morotti, recensione a L'agenzia di viaggi, in "Soglie", dicembre 2006, pp. 60-61).
6 Roberto Amato, L'agenzia di viaggi, Diabasis, 2006, p. 151.
7 Simona Niccolai, recensione a L'agenzia di viaggi, su http://cartescoperterecensionietesti.blogspot.com, 21/02/07.
8 Roberto Amato, L'agenzia di viaggi, Diabasis, 2006, p. 79.
9 Ibidem, p. 74.
10 Silvia Morotti, op. cit., p. 62.
11 Manlio Cancogni, op. cit., pp. 6-7.
12 Roberto Amato, L'agenzia cit. , p. 112.
13 Ibidem, p. 73.
14 Ibidem, p. 70.
15 Vedi nota 2.
16 Alfonso Berardinelli, "Non è esattamente un asilo infantile", in Poesia '94, Annuario, a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 1995, p. 33.
17 Franco Brevini, Un popolo di poeti, in "La Rivista dei Libri", aprile 1993, pp. 16-17.
ma che troiume è?
nedovannini psichiatra
Quando mi ha scritto chiedendomi di iscriversi al sito pensavo che lei fosse una brava persona. Mi sbagliavo con un altro, sennò col cavolo che la facevo entrare. Ora mi tocca inseguire i suoi commenti scacazzati qua e là per il sito e cancellarli....
Trasciatti