L'agenzia di viaggi: un po' di rassegna

Dom, 01/20/2008 - 01:14

L'agenzia di viaggi: un po' di rassegna

 
Roberto Amato, L'agenzia di viaggi, Reggio Emilia, Diabasis, 2006 
Carlo Bordini (L'Unità) 
Roberto Amato ha pubblicato nel 2003, con le edizioni Diabasis, la raccolta poetica Le cucine celesti, preceduta da un'entusiastica nota di Manlio Cancogni, che vinse il premio Viareggio di quello stesso anno. Quest'anno, sempre con Diabasis, è uscita di Roberto Amato una nuova raccolta poetica, L'agenzia di viaggi (pagg. 166, € 12). In una Nota di credito all'inizio del libro l'autore definisce la poesia "un'anomalia del linguaggio" e dichiara di aver voluto (che avrebbe voluto) scrivere un romanzo. E in effetti in questo libro si ha la sensazione di star leggendo un romanzo non scritto per esteso ma accennato per punti, un romanzo imploso, (raggrinzito), coi pezzi che volano da tutte le parti, in cui (siamo sempre alla Nota di credito), "Gli oggetti acquistano un'evidenza indesiderata, o perlomeno del tutto imprevista"; i personaggi si rincorrono per le varie sezioni del libro, personaggi di una famiglia psicotica, bislacca, frammenti, in sostanza, di un visionario romanzo familiare.
Qui, rispetto a Le cucine celesti, in cui era soprattutto protagonista il gioco, un gioco aereo e fantastico, il tono punta più sull'esistenziale, sul dolore di vivere. L'ombra della psicosi si allunga su gran parte dei personaggi. Si direbbe che la metà dei personaggi di questo romanzo virtuale siano carcerati e l'altra metà persecutori o carcerieri ("Forse mio padre / mi ha cucito il cervello in un calzino / tutta la vita mi ha tenuto chiuso / nel magazzino delle scorte"). La mia sensazione però è che il dramma non si addica ad Amato. La parte migliore e più convincente del libro mi sembra quella in cui il dramma scivola nel comico, e dà l'idea quasi di un Beckett elementare, oppure quella in cui si riprende il gioco aereo de Le cucine celesti. Particolarmente significative in questo senso le sezioni della seconda parte del libro, Il padre, La casa degli ospiti, Il negozio, in cui il tono narrativo diviene fiabesco, ironico e un po' surreale, e il dramma viene visto soltanto in filigrana. La lunga sequenza di mestieri assume, accumulandosi, una valenza simbolica, e quella particolare grazia (aerea) che caratterizzava Le cucine celesti stinge talvolta in una lieve malinconia, un po' ironica e un po' crepuscolare ("Si è spento / (già dicono di me) / quel fuoco / sotto la pentola // solo un sonno di rose / e di limoni acerbi / dormo / seduto sì / ma dormo /// e /// proprio muto / non sono // tentenno / scuoto i miei quasi / cinquant'anni / portati proprio male: // donne ci vogliono! / quelle belle zitelle /bianche e rosse / che ti spingono / il trono"), e la sezione Lettere ad Elsa è forse la più felice del libro: "anche il Cristo mi russa sulla testa / dorme sulla sua croce (probabilmente / smette di soffrire // allora / resto completamente solo / e // ho pensieri confusi (e una dolcissima / paura di morire)". Qui, dopo il paesaggio desolato che caratterizza l'incipit del libro, il dolore è diventato gozzaniano. L'opera termina non a caso con la citazione di due versi di Caproni: "Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo". Un poeta incline alla leggerezza come Amato non può assolutamente non amare Caproni."
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Andrea Ponso
Il secondo libro in versi di Roberto Amato, dopo il sorprendente esordio con Le cucine celesti, per lo stesso editore, vincitore del Viareggio, si presenta alla lettura come un ottimo banco di prova della linea, pressoché solitaria e del tutto originale, inaugurata dall'autore. Sarà quindi subito il caso di discutere questa novità e di rintracciarne magari alcune coordinate. A nostro avviso la poesia di Amato risulta carica di novità non tanto per la mancanza di referenti culturali, quanto piuttosto per la loro originalità e per la loro naturale tendenza a porsi, seppure in maniera non frontale, in opposizione con la linea canonica della poesia italiana del Novecento. Infatti, i primi nomi che verrebbero in aiuto, potrebbero intanto essere collocati negli ambiti della prosa, seppure ad alto tasso poetico (il che, naturalmente, non vuole assolutamente dire "prosa poetica" o, peggio, "prosa d'arte): Kafka in primis, poi Bruno Schulz e, forse, per restare in ambito nazionale, potremmo fare anche il nome di Giuliano Scabia. Già questa prima valutazione mostra in maniera lampante una sorta di "fastidio" che Amato avverte nel collocarsi all'interno della linea canonica della poesia italiana contemporanea, reso ancora più marcato dall'ambigua e, forse, autocanzonatoria Nota di credito che apre il libro, e nella quale possiamo leggere frasi come le seguenti: "Naturalmente io volevo scrivere un romanzo", oppure "Che cosa ho contro la poesia? Tutto. Spesso tra me e me ne parlo. Accarezzo (e trascrivo) pensieri che hanno proprio questo titolo saggistico: 'L'insopportabilità della poesia come genere letterario'. Che cosa, chi, autorizza un essere umano a scrivere versi? Di slancio mi risponderei: nessuno. Invece non mi rispondo così. Anzi non mi rispondo affatto." Amato non odia la poesia, oppure la odia come si può odiare se stessi, con amore e rancore insieme, ma questo è per lui anche l'indice di una non assimilabilità al codice letterario vigente. Forse, più precisamente, una tale scrittura potrebbe essere avvicinata alla tradizione musicale dell'opera buffa, con tutte le inclinazioni colte che questo può comportare e soprattutto al carattere orale, musicale anche nel senso di effimero, di felicemente e dolorosamente effimero, di una tale predisposizione. La lingua di Amato, in effetti, pur nella sua luminosità e semplicità quasi da libretto d'opera  - caratteristica, questa, non certo del tutto estranea, a ben vedere, al canone italiano -  possiede una precisione prosodica e ritmica davvero sorprendente, forse non immediatamente percepibile, tanto è tessuta nella grana narrativa delle singole sezioni: una musicalità e una cantabilità che non si ripercuote tanto nelle aggregazioni tra singole parole, pure presenti e dolcissime, quanto nelle inarcature di un parlato tanto naturale quanto artificialmente e ritmicamente orientato  - e infatti, questa pendolarità pericolosissima, umanamente pericolosissima, tra artificio e naturalezza è forse uno dei temi sotterranei dell'intero lavoro. Una poesia, questa, che può essere facilmente confusa, per le situazioni esteriori e per certo uso dei materiali, ad una temperie di tipo rinunciatario e crepuscolare: niente di più sbagliato, a nostro avviso, sebbene la stessa lingua riesca, in molti casi, a raggiungere quella fisionomia che, nel canone italiano, solo certi dialettali, come ad esempio Raffaello Baldini, sanno ottenere  -  ed è chiaro che ottenerla nella lingua nazionale è impresa non da poco. La poesia di Amato, dicevamo, è al contrario una poesia a suo modo profondamente crudele, lacerante e perturbante, dove chi si lascia portare da quel suo cantare sommesso e come in sordina rischia di rompersi la testa per un eccesso lancinante di leggerezza e di fruibilità, tanto trasparente e limpida quanto più si avvicina al soffio unisono dell'inconsistenza, una beata e terribile inconsistenza: luogo in cui ci si perde se si segue il battito precisissimo del piede musicale del poeta  -  e in questo, potremmo certamente vedere l'influenza, pure ben dissimulata, del magistero di Caproni, come certo caproniana è la tessitura narrativa per così dire perforata e arieggiata, e tuttavia capace di creare e raccontare storie, non solamente per lacerti irrelati, ma attraverso una costruzione concretissima e consecutiva (non a caso è proprio di Caproni il verso che chiude l'intero libro). Questa capacità di "raccontare storie" architettate nell'aria, quasi come una gesticolazione soffice e nervosa della mano, è in effetti la vera caratteristica dei testi di Amato, che ci porta alla considerazione di alcuni paradossi, anch'essi luminosi e terribili. L'ossatura dell'intero libro potrebbe essere paragonata alla corda vibrante di un archetto, che sprigiona la propria carne e la propria pelle liscia attraverso il tormento-gioia del tocco, del continuo movimento impresso e imposto da una mano invisibile, quasi a grattare insistentemente il dolore dell'esserci, l'impossibilità del non essere altro che aria. All'opposto, il terrore di non esserci più, della totale evanescenza, spinge il poeta a questa continua affabulazione, sommessa ma tenacissima, ridicola e terribile come può esserlo il mormorio beckettiano. Allora l'assoluto bisogno di precisione prosodica diventa il luogo sempre precario di questo equilibrio, all'interno del quale è praticamente impossibile capire dove il gioco si fa serio e dove la serietà si fa gioco, dove la scrittura non è altro che "un grande svolazzare" intorno "a questa Mistificazione". La "semplificazione" è auspicata ma nello stesso tempo sommamente pericolosa, poiché anche "l'universo è ecolalico / e poi basta cambiare le vocali / sole / sale" per rendere tutto arruffato e terribilmente poco serio. Del resto, come suggerisce lo stesso poeta: "Le potrei dire che ho raggiunto / quasi la Pace Eterna / però all'esterno sono tutto / un tic / c'è n'è uno in particolare / che mi gira la testa / e mi stritola i dischi vertebrali / e poi mi fa schioccare il timpano sinistro / divento quasi sordo da un orecchio / eppure gliel'ho detto / dentro è tutto diverso / nessun tremore / c'è un lago silenzioso / che nemmeno s'increspa".
Allora il poeta è un "Ascoltatore di musica in vinile", preciso nel seguire i solchi del disco, micropercorsi di consistenza che inevitabilmente finiscono "in un solco senza fine", portati da un'eterna spirale musicale, che quindi non è mai, in Amato, una vera e propria linea di fuga, quanto piuttosto una cauta intonazione con la fine del mondo. Amato è infatti poeta della fine del mondo sempre imminente e, per questo, mai del tutto liberatoria (e Poesie della fine del mondo si intitolava un libro in versi di un autore con il quale questo poeta ha certo qualcosa da spartire nel profondo)  -  una fine del mondo che si attacca amorevolmente ai suoi infiniti titoli di coda, umanissimi quanto più sembrano lunatici e scossi da una fantasia malata e suicida, tanto che la parola suicidio si fa persino dolce, proprio perché nel momento in cui la si pronuncia si è ancora pienamente e disperatamente "nel proprio peso", nella propria piena consistenza, amata e odiata ad un tempo.
L'ironia, allora, assume in questa poesia caratteristiche che potremmo dire anche swiftiane, attraverso il paradosso delle dimensioni, troppo grandi o troppo piccole: il protagonista è, volta per volta, un uccellaccio ingombrante, che inciampa, come Baudelaire, sulle proprie ali, oppure un essere minuscolo che si perde tra il mobilio della cucina, e che non sa e non vuole più fuggire, un essere innocuo al mondo e pericoloso per se stesso: "La verità è che sono troppo / stanco per fuggire / e non ho più l'età / non riesco a fare grandi balzi / aggirare le trappole / che i bambini mi mettono / in tutti gli angoli / di questa brutta casa // e se mi siedo qui / e guardo il muro / con le mani nel grembo / in realtà mi contemplo / fino all'esecrazione: / un nulla / che disgraziatamente / posa il sedere ossuto / sopra un cuscino di velluto". La poesia, allora, è una sorta di tic celestiale: "e allungo il collo / e lo giro in un tic / che è quasi celestiale / (perché l'ho visto fare / alle colombe)". Il figlio Lapo, altro personaggio di questo libro, tra i molti, risulta quasi del tutto inetto alla vita, come lo sarà il padre, che decide ad un certo punto di andare a vivere sopra un albero, quasi autisticamente chiuso nel proprio udito, tanto che l'aria e il vuoto "gli piega(no) leggermente / le ginocchia sottili", eppure, "eppure Lapo / tende una mano tocca / l'arpa": l'impossibile diventa l'unico luogo abitabile per chi è costretto alla coerenza leggerissima della musica e dell'ascolto, e possiamo certo pensare alla tessitura cristallina eppure pericolosissima delle trame ariostesche dove, in barba a certe letture incentrate sulla "semplicità", l'equilibrio si fa persino tragico, tagliente come un bisturi, dove ogni figura è stilizzata e strettissima nella sua guaina musicale e biforcuta, come una lingua fredda e viva, carica di armonia e di veleno che non si può sputare, continuamente distratti dal vento, che non fa stare in piedi, e da quelle stelle, in alto, che l'autore non sa mai se tremino di gioia o di spavento.
Il poeta è allora, volta per volta, un "profumiere", che gira le strade del mondo con il suo carretto di profumi e di essenze inconsistenti: ad essere inconsistenti, certo, sono le essenze, ma in questo "lavoro", almeno, il "carretto" ha la capacità di regolare l'equilibrio e di fare stare in piedi con un minimo di dignità chi, appunto, "tira la carretta"  -  anche se nessuno considera "la minuscola immensità" del suo lavoro e forse nessuno in realtà "vede niente". Il poeta-profumiere, allora, quasi guidato da una divina indolenza (che potrebbe ricordare la calma terribile di Walser), si nasconde dietro al suo lavoro, e lascia fare, come faceva il padre, agli avventori: "come quando mio padre / che faceva il calzolaio / attaccava alla porta / un bel cartello "Torno Subito" / e invece c'era / si nascondeva in un cantuccio / del suo retrobottega / dietro rotoli di vitello / latte di colla e tacchi / pacchi di suole / da cucire // e stava lì / a pensare / fino a sera".
Oppure il poeta è il figlio del proprietario di una "Fabbrica di Calzini" che, bambino alla soglia dei cinquant'anni, con le sue fantasticherie apocalittiche intralcia il lavoro e divaga: "... io non sono mai stato / un Descrittore / avrei dovuto approfondire / per lo meno la Storia / dell'Arte Universale / ma quelle inutili Dispense Fabbri / in un certo qual modo / mi angustiavano // vedevo tutto piccolo / anche i capolavori: / anche la bella pancia / della Maria di Piero / mi pareva il rigonfio / di un baccello / e i cavalli giganti dell'Uccello / piccoli e timidi ciuchini"; oppure perde la vita a cercare di "appaiare / per lo meno i colori", salvo poi covare il desiderio di "scendere / in cantina / sotto una pergola di spole / aggrovigliare il senno / dei filatori estatici", motivo per il quale, probabilmente, dice il protagonista, "mio padre / mi ha cucito il cervello in un calzino". È una "bottega", questa, che come l'intero libro, può ricordare per certi aspetti quelle descritte da Schulz, nei suoi splendidi racconti, e più ancora può richiamare alla mente i suoi disegni di uomini minuscoli e sproporzionati di fronte a donne altissime e crudelmente padrone.
O, ancora, riprendendo tra l'altro una delle linee portanti del lavoro precedente, il poeta è un cuoco che lavora di notte, e che "cucina lentamente / minestre complicate" per i morti, o per la madre, nascosta tra le buste dei legumi secchi, dove si conserva "l'eternità dei vegetali"; un cuoco che "Si è spento / (già dicono di me) / quel fuoco / sotto la pentola / solo un sonno di rose / e di limoni acerbi"  -  e allora occorre non immedesimarsi troppo... "non ci pensare dammi retta / non t'immedesimare / lo so i ginocchi sono deboli / gli occhi anche / ma vedrai non è detto / non è detto...".
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Silvia Morotti (Soglie) 
L'agenzia di viaggi si apre con la Nota di credito, un'insolita captatio benevolentiae che ricorda, nel taglio e nel rapporto dialettico tra l'io e la scrittura, Prefazioni di Sören Kierkegaard:
[...]
Che cosa ho contro la poesia?
Tutto.
Spesso tra me e me ne parlo. Accarezzo (e trascrivo) pensieri che hanno proprio questo titolo saggistico: "L'insopportabilità della poesia come genere letterario". Che cosa, chi, autorizza un essere umano a scrivere in versi? Di slancio mi risponderei: nessuno. Invece non mi rispondo così. Anzi non mi rispondo affatto.
O potrei dire che mi vengono in soccorso gli uccelli, la loro capacità imitativa, il loro fischiare che è sempre l'eco di un altro fischio. Il loro tenace rimario.
Allora mi assolvo, e lo faccio proprio con questa piccola prefazione, con la quale in realtà cerco si screditarmi come autore, ossia - astutamente - cerco di accreditarmi il perdono del lettore.
Se le Cucine Celesti (Diabasis 2003), con la loro apparente levità, mostravano al lettore favolosi e innumerevoli nascondigli, in cui rifugiarsi ed eludere il vuoto, L'Agenzia prosegue  e perfeziona l'opera di tessitura, dando voce a personaggi lucidamente pazzeschi e miracolosamente capaci di muoversi in un universo dai <<grandi architravi>> e dalle <<cantine a volte>> poggiate <<sulle foglie del mare>>.
Il libro si articola in due parti, Il Profumiere e L'agenzia di viaggi, composte rispettivamente da nove e da sette sezioni in cui, con una <<sublime alternanza>> (cfr. p. 52: <<una fetta di pane/ e un uccello/una fetta di pane/ e un altro//uccello>>), si susseguono sezioni narrative, sezioni propriamente liriche e sezioni quasi teatrali. Il lirismo è spesso smorzato dall'ironia, dal <<pane>>  di una lingua straordinariamente fantasiosa eppure sempre nitida e essenziale (cfr. p. 73: <<Che splendido dolore/ mi coltivo// più bello di un geranio solitario/ e nero//è quasi un mal di denti/ma più interno/più verso il fondo/ starei per dire/ della testa [...]>>). Talvolta assistiamo a dialoghi  in cui lo slittamento semantico segna il passaggio dal favoloso al concreto e viceversa: così, nello scambio di battute tra i familiari della casa eternamente in Usucapione, i <<sacrifici>> per le spese del mutuo divengono, nelle parole della nonna,  <<sacrifici/umani>> e, con un ulteriore salto, il muoversi delle mani di lei dà vita all'immolazione di un'allodola (cfr. p. 52):
-Sì siamo nelle spese
dovremmo fare un mutuo
e così tanti sacrifici...
                  che dici?- rimbeccava la nonna
                  il Giardiniere...
                   -zitto e addormentati
                   da molto tempo in questa casa non si
                                                                     fanno
sacrifici
umani
(faceva strani gesti con le mani
come se disegnasse nell'aria vespertina
code
e piume
o sistemasse fiori dentro un vaso)
hai immolato un'allodola
ma te la sei mangiata
(per caso non te la ricordi?)
e ancora...
Lo stile riflette la natura ossimorica di questa poesia, nella quale il cielo è sempre oltre una finestra, un balcone, una ringhiera, è possibilità imprigionata in uno spazio  <<mai abbastanza vasto>> per chi <<è nato per volare>>.
Apre il libro l'Ascoltatore di musica in vinile, uno scrittore (<<io sono uno scrittore>>) o meglio <<un vecchio uccello/(un uccellaccio bianco/ e nero)>>, che, pacatamente, argomenta sulla <<Mistificazione>>, riflette sui <<passaggi sottilissimi>> dei <<grandi dischi a sessantotto giri>> e sul mondo che finisce quando la puntina s'incanta in <<un solco/ senza fine>>.
Con tecnica romanzesca, il personaggio si delinea nell'intreccio dei diversi punti di vista: quello del figlio, filtrato dal protagonista e quindi quasi interno (<<dice mio figlio Lapo/ che ho qualcosa del santo>>), e quello, esterno, del dottore, interlocutore distante e incapace di capire (<<Lei non capirà mai/dottore>>). Come in un dramma shakespeariano è difficile stabilire chi, tra gli attori, dice la verità: l'Ascoltatore sostiene che suo figlio è pazzo (<<certo mio figlio è pazzo>>), ma poi si autodefinisce <<spettro amletico>> (cfr. p. 25, L'amore per Lapo, vv. 4 e sgg.: <<gli apparisco davanti/come uno spettro amletico/lo guardo fisso/ e allungo il collo/ e lo giro in un tic/ che è quasi celestiale>>).
Lo spavento di Lapo, bambino fatto <<ammattire per purissimo amore>>, è istintivo ritrarsi di fronte all'irrompere dell'oltre che il tic <<quasi celestiale>> del padre rivela. Il figlio <<autistico>>, che di notte trascrive l'arte della Fuga, a differenza del dottore, sa intuire il nulla <<che si configura/ dopo i disegni/ quasi infantili delle costellazioni>> e che si insinua tra i fogli delle partiture di Bach: se il padre sbaglia nel voltare la pagina, se manca <<il punto esatto>>, il nulla irrompe e Lapo << si taglia le dita/ con le corde più tese e più sottili>>.
L'amore per Lapo è tra le sezioni più liriche del libro: prevalgono versi brevi (con qualche endecasillabo), mentre, nelle sezioni più narrative, in particolare ne L'agenzia di viaggi, si tende, spesso, a una misura esametrica (cfr. passim: settenario più endecasillabo: <<se si affaccia un cliente nel piccolo negozio di mia moglie>>; quinario più novenario: <<e francamente non lo so se questo è immorale>>; doppio settenario: <<lasciami raccontare quel poco che è successo>>).
I personaggi maschili del libro sembrano incapaci di abitare lo spazio degli altri: vivono nascosti negli angoli (<<come mio figlio sto/ sempre negli angoli>>) oppure decidono di essere capre come il padre, Luigi Amato, che un giorno interrompe il suo camminare sul mare (<<mio padre camminava anche sul mare>>), abbandona il commercio di <<chincaglie>> e spicca un salto per stormire e cantare con le foglie (cfr. L'abitatore dell'albero). Il Profumiere, leopardiano pastore errante, appeso al carretto che lo sostiene (<<a volte penso/ se non avessi il mio carretto/ non potrei stare in piedi>>), risale i gironi del mercato e, in solitudine, medita sulla <<minuscola immensità del suo lavoro>>, sulla <<segreta strategia>> che dispone flaconi, sacchetti, barattoli, bustine di raso proprio <<al centro/ del carretto>>. Il cuoco (cfr. sezione conclusiva del Profumiere), di notte, cucina minestre per i defunti e tiene la madre chiusa in dispensa: il contatto con gli altri è possibile solo quando dormono, quando i loro occhi <<si muovono felici>>, sognando <<feste di compleanno>>; quando, nel sonno, le loro labbra <<s'increspano>> e tentano di dire qualcosa, anche se, <<forse>>, non riconoscono le dita che le sfiorano (<<certe donnine addormentate/non si accorgono/ di niente>>).
L'io lirico si pone un gradino più in basso rispetto allo spazio abitato dagli altri (nell'<<ombra dei paralumi>> o <<sotto il tavolo da cucina>>) oppure tenta di ascendere, magari arrampicandosi <<ai calzini degli angeli>> (cfr. La fabbrica dei calzini).
Uscite dal seminato o in bilico e in attesa di cadere (e la caduta è volo rilkiano), queste maschere dell'io guardano al mondo come Gregor Sampsa spia l'esistenza che si svolge nel vicino e irraggiungibile salotto.
Nella seconda parte del libro, L'agenzia di viaggi, prendono vita i personaggi femminili: Ada/Adelaide, la moglie <<santa>>, e Elsa, l'inesistente amante a cui sono dedicate <<lettere sognanti>>, Proserpina e, al tempo stesso, <<donnone panciuto>> con <<mani pesanti/ da stiratrice>>. Il poeta raffigura Elsa con lo stesso procedimento con cui traduce l'Ars amatoria di Ovidio (cfr. p. 107):
Io come sempre copio ricette antiche
spalanco Ovidio a caso
(una finestra)
sunt, quae parecipiant herbas, satureia, nocentis
sumere: iudiciis ista venena meis;
aut piper urticae mordacis semine miscent
tritaquent in annoso flava pyrethra mero...
credo sia una minestra
con le fave di noci e un po' d'ortica
forse una specie di misciùa
(senza il cavolo nero)
E' una parodia che nulla toglie al canto:
Le spore gli acari i microbi
la vita che si svolge intorno al battiscopa
certo sarebbe bello parlarti di queste cose
che sono consolanti come la pasqua
come l'ulivo tra le dita sognanti
delle bambine credule
 [...]
Mentre l'io lirico <<riordina il creato>> come <<giocasse a Lego>>, scrive a Elsa e, se non dorme, traduce Lucrezio, Ada/Adelaide gli mura intorno la casa e, <<dal nulla/ o con un po' di fango>>, modella figli, vestiti e scarpe.
Nel microcosmo dell'Agenzia non esistono veri viaggi: la vita è  una <<sosta nel nulla>>, il tempo <<striscia sulle cose>> con <<leggerezza>> e, se qualcosa accade, è l'io che scrive a farla accadere (cfr. p.111):
ma qui il tempo si vede passare...o meglio...
si vede come striscia sulle cose
ma
bada bene:
con una leggerezza
non sposta niente nemmeno un capello
caduto per disgrazia sulla mia tastiera (devo
prendere un pennellino da acquerello
e farlo volare io)
e non fa rotolare una penna rimasta in bilico sull'orlo
del comodino:
devo pensarci io a spostarla
fino a quando non cade
con un frastuono quasi di campane
In questo universo chiuso e immobile, i rapporti tra l'interno e l'esterno si invertono: da fuori, dalla  finestra che dà su un giardino/paradiso, Nedo, lare dal naso dantesco e dal collo di giraffa, si affaccia all'<<aria malsana della stanza>>. A Nedo è dedicata l'ultima sezione del libro, La malattia immortale:  Amato riprende, rovesciandolo, il titolo dell'opera di Kierkegaard, La malattia mortale, che si apre con  la resurrezione di Lazzaro. La malattia mortale è la disperazione che nasce dal non poter morire, dall'essere privi dell'ultima speranza, quella della morte.
La malattia di Nedo è invece immortale, come il suo mondo <<che esiste solo/ in versi>>. Quando Nedo/ Lazzaro si addormenta, sta al poeta compiere il gesto di Cristo, <<andarlo a svegliare>>:
Ora vado a svegliarlo
(penso)
bisogna che gli dica
che la sua malattia non è mortale
 e che il cielo è subito lì
basta alzare la testa
sul lungo collo di giraffa
annusare le nuvole
le camicie che sanno di bucato
Le camicie che sanno di bucato riconducono al cielo e al volo. Ai margini del libro, gli uccelli custodiscono il luogo delle esistenze possibili;  li ritroviamo in epigrafe:
Lascio due versi di Caproni qui. Dove il libro si chiude e allora smette di esistere.
Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo.
I versi di Caproni chiudono il libro e, al tempo stesso, aprono lo spazio al bianco del cielo: <<qui>> Nedo indossa la camicia/sudario, annusa le nuvole e riprende il  suo <<caparbio/ navigare controvento...>>.
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Alessandro Trasciatti (Il Grandevetro, n. 76, ott-nov 2006)
Roberto Amato è un dissimulatore. Fino a cinquant'anni è stato un poeta in incognito, vendeva scarpe al mercato di Viareggio, si perdeva in argomentazioni trascendentali con i clienti, mangiava felafel a un chiosco in passeggiata. Poi, nel 2003, è venuto fuori con un libro di poesie bellissimo, "Le cucine celesti", e ha vinto il premio Viareggio. Perché Amato è unico nel paesaggio poetico italiano, come un albero appartato in cima a una delle nostre colline. Fosse più vicino alla città, ci sarebbe sempre pieno di gente a fare spuntini alla sua ombra, operai, ragazzi, coppiette. Invece bisogna sapere dov'è per trovarlo e allora di gente ce ne va poca. E' un po' quello che succede ai suoi libri, che in giro ci sono ma vanno saputi scovare, che sui quotidiani appaiono ma scompaiono subito. Eppure sono così belli da leggere, e così facili, se ancora ci fosse l'abitudine di leggere.
Naturalmente io volevo scrivere un romanzo. E, lo devo ammettere, perfino l'editore ha compreso le mie intenzioni e mi ha rinchiuso, benignamente, in una collana che non è "solo di poesia". Così scrive Roberto nella "Nota di credito" che apre il suo nuovo libro, "L'agenzia di viaggi" (Diabasis). Credo che questa affermazione vada presa sul serio, anche se dire cosa racconti Amato non è facile. Il suo è davvero una sorta di romanzo (in versi), che però (poeticamente) non è riassumibile, riconducibile ad una trama. Eppure la spinta a narrare è sincera, si sente che Amato deve raccontare qualcosa, un'esistenza, una condizione, un cammino nel mondo. Come in un romanzo ci sono dei personaggi: l'io poetico-narrante, la moglie Ada-Adelaide, il figlio Lapo- Ireneo, la popputa vicina di casa Elsa e poi Nedo il brucatore di gerani...Insomma, c'è un ambiente, un microcosmo, delle figure che sono lontane da tanta poesia del Novecento e anche di questo Novecento Allungato che viviamo, tutta poesia chiusa su un'interiorità insondabile, oppure fatta di un linguaggio esploso, senza più referenti di realtà. Qui, invece, senza un rigoroso ordine cronologico, Amato racconta e descrive un suo universo domestico che ha accenti da commedia: Nell'udito finissimo del nonno Giardiniere/a volte si insinuavano i fantasmi/di culone fantesche/lui spengeva la luce/forse/su quelle chiappe/di purissimo spirito/allungava le mani.
Ecco un altro tratto fondamentale della poesia di Amato: l'ironia, davvero una merce rara tra i poeti italiani contemporanei. Nei confronti della poesia c'è una sorta di soggezione, una deferenza male intesa, per cui quando si scrive in versi ci si veste con la toga degli antichi, si intona la voce, ci si sforza di dire cose memorabili e profonde, come se ancora si concepisse la poesia come un momento di sacralità. Invece, nei versi di "ventofino" Amato, c'è sempre un refolo d'ironia, leggera ma costante, una corrente d'aria che circola dalle finestre e dalle porte aperte delle case che racconta. Si potrebbe dire che la sua è una poesia familiare, fatta di mogli cuciniere, zie, prozie, ave e bisavole, figli malinconici, padri inetti e tormentati dal nulla. Ma l'angoscia dell'esistenza è sublimata, il domestico si trasforma in fantastico, la prigionia casalinga in euforica cosmogonia. Il gioco degli slittamenti analogici è continuo. Si dirà che in poesia è normale procedere per somiglianze e opposizioni, che il linguaggio poetico è analogico. Ma Amato ha trovato il modo di dissimularlo, come fosse quella la norma del linguaggio. Leggendolo, ci sembra sempre di essere all'interno di un ragionamento sensato, di un racconto lucido, mentre siamo in uno sragionare amabile e perenne. Assieme alla narratività e all'ironia, è proprio questo continuo passaggio dal metaforico al letterale, dall'astratto al concreto, dal fuori al dentro a fare della poesia di Amato un vero e proprio "unicum". La miseria del mondo viene elevata a dignità celeste, le altezze siderali vengo abbassate ad uso e consumo dei terrestri. Si prenda, ad esempio, il "Profumiere", dove il carretto di un ambulante sale i cerchi concentrici del mercato come fosse in paradiso, e dove il paradiso è affollato di avventori come un mercato. Altrove basta anche meno, e una pioggia di stagione diventa epica come un diluvio: Piove nella cantina/i grandi macchinari/di mio padre/le frese/le cucitrici a doppio/filo/le presse ad aria/le tranciatrici dagl'immensi/volani/calano verso il basso/verso il fondo allagato/del Creato."
 
 
 
 
 

  1. nedovannini on Dom, 01/20/2008 - 12:05

    Io vorrei essere ignorato TOTALMENTE. E non messo in piazza in questa maniera. Oltretutto senza il mio permesso.
    Credo che mi rinchiuderò nell'ambulatorio del Vannini. E lì sparleremo molto di lei. Moltissimo.

    Roberto Amato

  2. trasciatti on Dom, 01/20/2008 - 16:35

    Se il mondo la ignora, lei piange e si dimena e rompe i santissimi a tutti, amici, nemici e semplici conoscenti. Se qualcuno - nella fattispecie il sottoscritto - si prende la briga di divulgare quanto è stato scritto non a sproposito su di lei, si lamenta che viene messo in piazza, quasi che le venga carpito un segreto. E poi cosa? Dovrei chiedere il permesso a lei di ripubblicare recensioni apparse su quotidiani e riviste, cose cioè di dominio pubblico? Lei è veramente un orso maleducato che non si merita niente. Voglio sperare che le sue lamentele siano dovuto al solo timore di essere sospettato di avermi plagiato e di utilizzare la mia imbecillità per farsi una misera pubblicità su questo sito da poco. Se così è, allora dichiaro solennemente che L'INIZIATIVA DI DIVULGARE AMATO E' ESCLUSIVAMENTE DA ADDEBITARSI AL SOTTOSCRITTO, L'AUTORE NON NE E' IN ALCUN MODO RESPONSABILE. Per il resto, vada a farsi fottere.

    Alessandro Trasciatti 

  3. nedovannini on Dom, 01/20/2008 - 18:00

    Io non lo so perché lei mi agita così tanto. Mi scuote nel profondo. Mi tarla. Mi consuma. Mi espone a quella massa di formiconi che si infilano nei cunicoli del suo situcolo pretenzioso e mal visitato. Mi umilia davanti a questo esercito di insetti imbelli e distratti (benché atrocemente nocivi). Tanto per cominciare mi tolga da lassù. Io non ce lo voglio un buco dove c'è scritto Amato e tutti ci possono entrare. Capisce? Io non ci dormo neanche la notte!

    Roberto Amato 

  4. nedovannini on Dom, 01/20/2008 - 22:24

    Caro Trasciatti, ho letto ora, per la prima volta, la sua recensione al mio libro sul Grande Vetro. Bravo. Posso dire che lei mi loda quasi il giusto. Ci sono, è vero, alcune imprecisioni circa il mio mestiere... Insomma, chieda a Ada se ho mai venduto una sola scarpa in vita mia! Forse una sì (mi pare nel 1989). Sì. Sì. Ada se lo ricorda bene perché la detti via spaiata. Un 41 e un 42.

    r,a.

  5. trasciatti on Dom, 01/20/2008 - 23:41

    Meno male, perché mi stavo alterando (o alternando?). E comunque vedo anche che come uomo di scarpe lei è veramente una calamità. Ma che fa? Vende le scarpe una sì e una no? E dire che sua moglie lo paga profumatamente e gli cucina anche dei mangiarini che dovrebbe leccarsi i baffi (lei, Amato, non sua moglie). E visto che ci sono glielo dico tondo tondo: si tagli quei baffi che la rendono ridicolo. tanto non mi assomiglierà mai, neanche se si fa crescere le basette fino ai piedi, che dopo ci intrampola pure, se le annoda alle caviglie come scaldamuscoli, che del resto non ha essendo flaccido come un'acciuga marinata. Perché non le mangia le acciughe che le prepara la moglie? Devo mangiarle tutte io quando sua moglie (non lei) mi invita gentilmente a cena e lei (Amato) fa scena muta, se ne sta addolorato e inappetente coi gomiti sulla tavola e la faccina schifata? Ma cosa crede, che le mogli siano fatte per servire in tavola ai mariti delle scatolette di simmenthal? Le lasci mangiare a me le scatolette che sono scapolo e cucino male, lei ne goda di essere coccolato e vezzeggiato ad acciughe marinate, non faccia tanto lo schifiltoso e ringrazi pubblicamente sua moglie che è una santa donna e se lo merita (prova ne sia che non lo ha ancora assassinato).

    A.T.