L'ombra del tempo, un libro di Andrea Gobetti

Dove incontrare l’ombra del tempo
di Nicola Dal Falco

Tra i libri di Andrea Gobetti c’è L’ombra del tempo, un titolo che potrebbe essere parafrasato in “la forma del tempo”. Libro d’avventure sopra e sotto la crosta terrestre, la sottile intercapedine su cui camminiamo, concentrando appena lo sguardo, giusto per non inciampare. Quello di Gobetti, invece, ha subito un’attrazione speciale proprio verso ciò che si spalanca al di là, appena superi l’imboccatura, a volte dimessa, di una grotta.
Qui appare, ma sarebbe più giusto dire, si materializza il tempo non più solo come parabola di istanti, destino individuale e comune. Appeso al vuoto o strisciante sui suoi bordi, avverti a morsi l’abisso, il calco prodotto dall’erosione dell’acqua, vuoto/matrice del tempo.
Il tempo sembra assumere una forma palpabile, si fa dimensione senza che la grotta ne diventi il monumento, perché il suo disfarsi, crearsi, parallelamente allo spettacolo esterno delle cime che franano a valle, prosegue senza soste.
Forse, la vera, assoluta vertigine, è riuscire a contemplare insieme la rovina dentro e fuori, a unire con l’occhio l’abisso che sale e quello che scende: le montagne con le proprie cavità, sottoposte a identica distruzione.
Pensando a tale corsa, viene in mente una delle teorie sull’universo che lo fa somigliare a una caramella: così in equilibrio e finito al punto da innescare un “desiderio” di cambiamento, di disordine, di annientamento. E proprio allora (vago e perfetto avverbio che include il big bang) si rompe l’equilibrio e carico di tutti i sapori e mondi possibili, inizia a srotolarsi il tempo, a farsi luogo. I due termini, spazio e tempo, si tengono, quindi, come una giacca al corpo. La scelta di chi è l’uno o l’altro dipenderà dalla personale visione delle cose ultime.

Il tempo biforca
Questa espansione o desiderato caos è il segreto di chi si cala nelle grotte, ottenendo dall’abisso un credito di emozioni e qualche briciola di conoscenza sulla «natura del tempo». La più onesta, Gobetti la sintetizza così:
«Il tempo è un labirinto di separazioni e congiunzioni, grandi gallerie nonché crepe anguste, vicoli ciechi, cul de sac, catture».
Un tempo che «biforca» e lascia scoprire «memorie che si sono aperte un passaggio dal passato a oggi, girovagando come nei complessi sotterranei dentro il Marguareis», quasi imprendibile e sulle cui tracce si sono lanciati «una banda di speleo che laggiù s’incontrò e si perdette, esploratori che si riconobbero e fecero dei loro destini un inestricabile groviglio, copia invisibile di quell’altro, che l’ombra del tempo ha cesellato e rivela a quelli che la sanno “armare”».

“Armare” il buio e il vuoto
Armare, mettendo un chiodo dietro l’altro dove passa la fune che può riportarti alla luce, ma armare dove esattamente? E qui Gobetti fa compiere al lettore un passo in più, passo determinante che conduce nel «buio antico». Lo chiama proprio così, indulgendo con giusta enfasi in un’immagine poetica.
Il buio antico, che lo speleologo rosicchia centimetro per centimetro o ingolla senza ritegni, colora paradossalmente il vuoto. Ambedue rappresentano la cresima, lo schiaffo virile e perciò simbolico di chi non scherza e accetta di giocare fino in fondo con la vita e le sue prove.
Ma se, andare sotto, portando gambe e braccia dove normalmente la gente non va, se perseguire la longissima via, mettendosi più che metaforicamente a sedere sopra l’abisso, su quel seggio periglioso, libero e invitante che orna di mistero una tavola rotonda di belli spiriti, vuol dire accettare il vuoto e il buio, allora questa ricerca riporta ad un inizio, il primo.
La teoria che il nostro universo sia precipitato da una perfezione e concentrazione tali divenute in qualche modo insopportabili, fa dire che è esistito un punto zero, dove il tempo, misura delle cose manifeste, si era azzerato, magari dopo essersi svolto al contrario.
Morale: chi scende forse sale e comunque vorrebbe trovarsi in quel punto iniziale, dove quello che era e quello che sarà si toccano come in uno specchio.

Avventure picaresche
Il libro è percorso da una vena visionaria, ma non è solo esplosioni rarefatte d’ingegno e fantasia, è anche e soprattutto un libro picaresco di stralunate peregrinazioni tra regioni terrestri e infere, dalle Alpi franco-piemontesi all’India, alla Sardegna, al Chiapas, di scontri d’amicizia in cui alla fine prevale l’essenziale: il ritratto del compagno d’avventura.
La lingua forbita, il piacere dell’espressione arguta, tenera, definitiva si marita a tutte gli imprevisti del viaggio.
In certe pagine, pare addirittura di seguire un diario di guerra tra i migliori, in cui la tensione sta nell’affresco d’ogni dettaglio, preso per il suo verso infimo e al tempo stesso epico.
Gobetti resta un romantico che alla questione se sia meglio fare il signore o lo straccione, risponde che a lui non interessa un’oculata meschinità e preferisce pescare insieme alla carta l’abisso della Papessa.
Così, nel viaggio in corso, può solo aggiungere che quelli come lui rimangono «scalatori al contrario, gente che si occupa della parte buia del monte e che se facessero gli psicanalisti si direbbe che sono parrucchieri alla rovescia».

In alto: copertina de “L’ombra del tempo” di Andrea Gobetti, edizioni Cda editori Vivalda, Torino maggio 2003 (18 euro).