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I giorni di Pandora
Gio, 02/07/2008 - 02:03 | Aggiungi un commento
(due epigrafi, qualche quadro e una conclusione ottimista)
I ciclisti
Un vento tiepido e daltonico lima i muri, sbuca dal curvone del bar, compatto di raggi, grugni e pedalate, frena appena e passa oltre, infilando il tunnel come lo spiedo il culo di un pollo.
Motociclisti
Un ruggito senza testa penetra il cervello dei passanti.
A galla
Puntuale, all'inizio del pomeriggio, si era alzata la breva, spingendo innanzi l'aria che stagnava sulla pianura e nelle città. Era un vento deciso ma non forte che divideva il lago in ondine ordinate come un allineamento di chepì, che sfilavano al passo.
L'aria molle agitava le cime dei pioppi, gonfiando d'umidità le imposte e coprendo la riva opposta di una bava di ragno fino quasi a farla scomparire. Grigi e sfiatati si ergevano alti i monti verso la Svizzera.
Qualcosa di vago e ineluttabile risaliva verso nord, spingendo nell'imbuto del lago. Pareva stoppa, uno spumeggiare di pagliuzze e foglie secche, strette in un rivolo denso e galleggianti sopra il vortice. Le cose stupite piombarono in una specie di afasia.
Perso a riva, in anticipo sui compagni, un agone scelse quel momento di estrema precarietà per spanciare. Ignorò i cavedani che roteavano tra i sassi gialli e le rondini a pelo d'acqua; con dei colpi di coda cercò di rimettersi dritto, due, tre volte finendo, però, sempre sul fianco, accecato dal sole, offrendo come ultima frase il bagliore argenteo del ventre.
Ripensando, poi, alla morte dell'agone, battezzai questi giorni senza tempo, uguali negli anni, i giorni di Pandora, quando con occhi sbarrati vediamo crescere attorno l'ombra dello stagno, la vertigine di un bicchiere in bilico.
A volte, quella vertigine è già dentro di noi e affiora tra le lettere del nome e del cognome. Lo stampo di una diversità tocca l'interessato come una grazia; l'energia che bolle forzando il passo dentro la storta si depura, sollevandosi in gocce di volontà e di voluttà.
Aperto, il Vaso di Pandora rovesciò nella storia tutti i guai del mondo tranne la speranza. Quel lievito amaro continua a mischiarsi nel silenzio della materia, al buio. Ha un rumore di niente ed effetti terribili. Viene dal caos, soffiando sulle cose con forza mai del tutto imbrigliata.
Lupi in giardino
Un mattino di primavera fugace, sparite le foglie dei platani da terra, qualche ciuffo di teneri rami ha già sfondato la corteccia chiara. Da altri tramonti, il sole allunga le braccia profumando di certezze l'aria. Con gli occhi aperti, torna prepotente il sogno del risveglio.
In quel punto del lungolago, un cancello di ferro tra due colonne interrompe il muro di cinta. All'interno, vicino alla colonna di sinistra c'è un piccolo terrazzo. In cima, sfuggito alla lugubre compostezza delle ortensie del parco e ai sofismi dei vialetti di ghiaia, sta accucciato un cane siberiano.
Il pelo irto sul collo e sulla schiena ha un che di leonino ma gli occhi chiarissimi assomigliano a quelli ciechi della sfinge. Non gli interessa il rado passeggio domenicale, né il pittore imbronciato alla finestra e al massimo lo sguardo incrocia il volo lineare dei gabbiani.
La sua onorevole forza sta nella sfacciata (senza espressione, rigida, bestiale) tristezza. O almeno così pare. Forse, per essere sobri occorre un pizzico di disperazione. Gli animali lo sono, gli animali lo sanno.
Ogni tanto, in fondo al petto, si spalanca un urlo; la nota bassa, lupesca affiora come una linea nera sul foglio così semplice e marcata da far traballare il cuore alle montagne. Il cane ulula alla sirena di una fabbrica.
Foce
I pesci morendo sono come gli uccelli. Creature antiche, che precedono e supereranno gli umani diluvi, vivono sorvolando gli abissi e nel giorno estremo salgono al tetto del sole, dove l'acqua che li sostenne si mischia all'aria sottile ma troppo dura. Al contrario degli uomini che in acqua o a terra scivolano, scivolano giù.
Mentre il riverbero del lago striscia il soffitto della stanza, il duro sonno pomeridiano accende strane visioni. Sole e acqua accompagnano il corpo in una breve notte velata. Stringendo i pugni, cerchiamo strade bianche, canti di cicale e il buio cerchiato di un pozzo. In questo stato d'animo stupito ma senza paura mi svegliai, scoprendo sopra il tonfo sensato della risacca un rumore goffo di pale, uno strazio meccanico.
A bassa quota, volteggiava l'elicottero dei pompieri. Passava lento, luccicante, i portelloni spalancati. Più che una ricerca pareva una danza sopra le ville, i giardini e la gente ammucchiata sulla spiaggia, alla foce del torrente. La domenica di luglio aveva rovesciato un popolo pazzo e stordito in riva al lago. La sbornia durava dal mattino e in quelle ore del dopo pranzo si era fatta ancora più tetra e inconcludente.
Più il sole batteva, più il lago diventava accecante e più la folla ribolliva di immobilità. Qualcosa poteva e sarebbe accaduto oscurando la vetta di minuscoli pensieri nel dì di festa.
Il pallone batte e ribatte sull'acqua. Un uomo disteso nella sdraio osserva le parabole a casaccio. Giocano in quattro, ridendo e bevendo sorsate di acqua nera. Il traghetto è ripartito di nuovo, tracciando la sua solita rotta, carico di automobili bollenti. I passeggeri sono tutti sul ponte. Curvando la schiena, il lago lancia un'onda senza spuma. La cavalcano in tre, il quarto, invece, abbassa la testa, gli manca il colpo di reni, cerca un varco sotto l'onda.
Schiacciato sulla porta di un altro mondo, allarga le braccia, la vita pesante, di sasso... giù senza strappi per una china d'erba scura d'inverno. L'amico più lesto si è immerso nel seno dell'onda in tempo per toccare il polso dell'annegato, sottile come un nastro.
L'ansia lo attanaglia e il buio gli divora gli occhi. Nera, nera notte di pioggia lo respinge. Torna su, schiumando da uccello ferito: "Qui, è qui... qui sotto"! Si spezza la voce a riva, sotto i tigli. La folla si muove, strisciando la coda per cercare con gli occhi dove si annida la paura, la povera, incredula speranza e stringerla di scaglie colorate e fredde.
La vede nei panni nudi di una madre, alta, dritta come un albero che ha bruciato l'ombra nel fuoco. Rabbrividisce l'aria di caldo e di silenzio mentre il lago s'infiora di barche sgraziate, cariche e mute di occhiate. Stanno lì a delimitare una tomba troppo larga e profonda, ai bordi di un buco smosso e già richiuso. La vita in pezzi, assottigliata, sfregata, pesata e saldata al volo dal caso, corre ai ripari:
ecco, le prefiche sciogliersi in lacrime asciutte;
ecco, il fotografo in scooter piombare bianco in faccia e abbottonato per farsi maltrattare dai compagni;
ecco, il gesto scaramantico di chi riapre il giornale;
ecco, due, tre divise sudare con i berretti in mano e il racconto ripetuto della disgrazia diventare meno austero. La madre è uno straccio di pianto, adagiato in terra, quarto d'ora lungo e vuoto.
Poi, dall'eremo di un porticciolo arriva una barca con due uomini. Si vestono di scuro in silenzio e entrano in acqua come svassi: scendendo qui e risalendo là, attenti alla selva di braccia che indicano il punto dove il ragazzo è caduto.
Maledetto lavoro di ingrata pietà; emozione fredda, cavernosa. Cogliere o raccogliere è compito scarno. Violando la natura sovrapposta del lago, la sua geologia di strati e correnti: sopra arricciato o disteso, a volte teso, come un raso frusto, sotto stanza buia satura di fermenti organici.
Luce non entra in questo ribollire piano di foglie e fango, oltre l'ultimo balcone della riva, ingombro d'alghe.
"Scendo con un compagno che puzza di paura - ricorda Eros - l'acqua è un velo spesso. Liquido museo degli orrori, di fantastiche e inconsulte figure, penetrate a spada dalla lampada. Frugo in un silenzio ostinato. ...15, 18, 20, 25, 30, 35...metri di acqua spessa, ruvida.
"Dalla verticale della barca, ci allarghiamo in cerchi concentrici. Nulla, tranne un branco di arborelle ferme, dipinte. Un arazzo argenteo calato dal soffitto.
"Più in basso, come un getto di grondaia scorre nel canale di pietra lungo il muro così il lago, spinto dal suo fiume, scorre su un cuore di ghiaccio. Acqua gelida, senza moto, supporto e specchio abissale. Qui solo finiscono le spade che salvano i regni, gli anelli e le principesse stregate.
"...28,25,23,21...metri. Su un'ampia piattaforma di roccia viscida, percorro la strada a ritroso. Dei tronchi affondati, un groviglio di reti, una sedia capovolta, le cose colpite dal raggio della lampada appaiono estranee al mondo di sopra che le ha generate. Alberi e arnesi umani sono ridotti ad un'unica ragione e necessità: sbriciolarsi, alzando di qualche millimetro il deposito del fondo. L'eternità è un sommesso disfacimento, lontano da sguardi distratti.
"Bisogna stare attenti a non sollevare con un colpo di pinna il velo di polvere che ricopre tutto. E' un esercizio identico ai miliardi di frasi ipocrite su cui galleggiano come testuggini i cuori infiammati. Vorrei nuotare fino al mare aperto seguendo le giravolte della costa ed emergere sotto un cielo, scaldato di stelle.
"A un certo punto, ho visto qualcosa di bianco. Sembravano delle scarpe da tennis ma quando mi sono avvicinato sono apparsi i piedi; le piante dei piedi, bianche che si toccavano. L'avevo trovato. Portarlo su è stato più difficile; l'altro non voleva saperne, gli bastava aver trovato e segnato il posto esatto.
"C'è gente che è rimasta sott'acqua venti minuti, mezz'ora e il freddo l'ha salvata. Questo ragazzo era rimasto giù quaranta minuti. Ho strattonato per la spalla il compagno che come un automa mi ha aiutato a spingerlo a riva. Lì, altre braccia lo hanno sollevato verso casa."
Dottore in lettere
Perchè, tu, scrittore di Chiara e rispecchiante vena, Ippocrate lariano, pur avendo scelto di calzare per spasso i coturni, ti sei fatto abbindolare?
Quali belle ragioni ti hanno spinto a battezzare il premio del gran Lombardi con un racconto della tosse, tra fauni e narcisi brianzoli? Era un'Arcadia alla Dickens, un punch al mandarino o fu, semplicemente, un mezzo, stenografico inchino?
E ora, cosa ti spinge ad abbandonare l'alto scranno, diviso in cima o in basso con l'uomo dalle scarpe di vernice, orfano di buona educazione ma parlatore perdiana!... e stampatore?
L'altro fusto, baciato in culo dalla fortuna (lui abatino almeno quanto il padre fu eremita e mugnaio in proprio) è uomo socievole, pieno di senso sociale e carriera; frequenta, raccontano, riunioni di coscritti senza riuscire a piazzare verbo.
Mi dispiace non poter consegnare in dieci copie questo mio lavoretto, aspettando i voti a dicembre. Che peccato che Colombina e doppio V non potranno discuterne insieme con blandi silenzi e frasette di Perugina saggezza.
Resta la domanda iniziale. Perchè?
Il lago è matrigno. Ci vorrebbe disperatamente un padre o un fratello o un amico o un cacciaballe con i coglioni.
Nel frattempo, dosa ansiolitici e verga ricette (utilissime anche a me) come fossero interi capitoli. All'indice corrisponde la parola "mestée" o mesto, chissà?
Nicola Dal Falco
(in alto: Eva prima Pandora, dipinto di Cousin, 1550, Parigi, Louvre)
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