Oct
24
Nasce il Libeccio
Ven, 10/24/2008 - 08:20
E' nato il Libratto di Alessandro Biagetti: Sogni di libeccio. Leggi un racconto:
La rotatoria
C’è un gatto. Pelo fulvo. Ma i colori dominanti in quel quadretto pomeridiano sono altri.
Il giallo paglierino delle sterpaglie fritte al sole di fine luglio. L’arancione dei giubbetti degli operai che lavorano alla rotatoria laggiù in fondo, quella per salire a Montescudaio. Il grigio rovente dell’asfalto, il verde dei pini ai lati della strada.
Il tutto reso più opaco dalla polvere e dall’afa.
Un’Ape da rottamazione si ferma lento davanti alla fonte. Ogni tanto si sente un clacson di qualcuno che ha furia.
Ma chi ha furia vadi piano, direbbe Aldo, incurante della grammatica ma esperto di detti popolari. E soprattutto ostile dal profondo alle trombette degli automobilisti in ritardo.
Scende dall’apino e si mette lì, Aldo, appoggiato alla staccionata del fosso. Guarda tranquillo le cose attorno; i suoi quadretti soliti e rassicuranti, di ricordi da vecchio. DOM in honorem sancti Caroli dicatum, ad esempio. Che non sa assolutamente cosa vuol dire, ai tempi fece la terza elementare a Riparbella e poi nei campi a lavorare. Per lui quella è solo la chiesetta di Casa Giustri, e da lì parte la stradina per andare al podere. Fatto tante volte quel viottolo, a piedi, per andare dal fattore. E infatti la scritta non la legge, perché la vista non è più quella di un tempo, ma la ricorda bene lo stesso.
Guarda quel gatto. Morto stecchito. Nessuno ce lo leverà, tanto. Stasera c’è la finale del pallone e te l’immagini se la gente ha voglia di levare i gatti morti dalle strade. Per me può rimanere lì fino ai prossimi mondiali, pensa tra sé.
Dall’altra parte dell’asfalto, accanto a dove è lui, c’è la fonte. Acqua buona, e viene tutti i giovedì pomeriggio con il suo carretto a motore per riempire le sue vecchie bottiglie. Durano tutta la settimana.
Meglio che spendere soldi per l’acqua. Non sopporta di doversela andare a comprare in Coop, l’acqua. Ai tempi s’andava al pozzo, ma era a gratisse, dice spesso alla nuora e ai nipoti. Ora la fanno anche trepperdue, è una merce di scambio come altre, l'acqua. Che schifo.
Che ore sono? Non è ancora tempo di andare a casa. Ma guarda, una macchina nera parcheggiata
dietro la chiesetta. Sembra che sballonzoli. Ci saranno due a fare le cosacce, pensa, tanto oramai puppe e culi si trovano anche sugli scontrini del pane. Buon per loro. Sorride.
Prima di compiere il rito dell’acqua il vecchio ha altri adempimenti cui dedicarsi. Intanto la consueta passeggiata tra i pini, lungo il fosso pieno di pruni. Cento metri e basta. Il fosso però è bello fondo. Due uomini ritti di sicuro. E c’è anche un po' d’acqua, probabile che sia di scarico, con dei pesci a nuotarci.
Chissà come ci sono capitati.
Passa la Sita. O è la circolare dei paesi? Insomma, un autobus.
Ad Aldo fa allegria il pullman. E per un attimo si mette a ricordare le gite di paese con la moglie, la Marisa. Quando stavano ancora a Riparbella, prima di trasferirsi al Palazzaccio. Lei voleva andare sempre ai santuari, e all’inizio lui la prendeva in giro. Poi aveva scoperto che da vedere c’era comunque, ci si divertiva uguale e più che altro si mangiava bene: preti e polli un’so’ mai satolli. Ora ha l’Ape e viaggia da sé. Di Marisa tiene la foto nel borsellino della patente.
La tira fuori quando va al cimitero. Il lunedì. Ma non fa come gli altri che si mettono lì zitti e fermi a lustrare il marmo. Lui dà un bacio alla foto e poi la saluta a voce alta. E ci parla.
Il pullman è una Sita, va verso la Steccaia, e poi su fino a Volterra. Ecco, dice tra sé, anche a Volterra ai tempi ci si andava spesso. C’era l’ospedale meglio della zona. Però quelle curve sono assassine, boia.
«Dé», gli viene da dire a voce alta, «c’ho visto tante di quelle macchine fracassate che non si contano».
Ora c’è l’autovelox. In due punti. E poi ci fanno tutte queste rotatorie che la gente deve per forza andare piano.
La macchina nera parcheggiata dietro la chiesa se ne va. Non si accorge del gatto, ma almeno non ce lo rispiaccica. Gli operai del comune stanno sempre lì a lavoro. A ribollire al sole.
Ma ai pini ci si respira. Quasi si può dire che ci si sta bene. Aldo si mette anche a contarli, i pini. Così, per curiosità. Tanto non ha nulla da fare. Il tempo scorre come gli pare, e quel pomeriggio va lento.
Minuto più o minuto meno, contare qualche albero non fa certo la differenza.
Senza dimenticare la prostata, e allora un poco più avanti c’è un po' di canne, per non dare troppo ell’occhio. Lì vicino alla rotatoria. Bello pisciare all’aria. In piedi. Rilassa.
Una macchina sbanda per un attimo. E’ montata sul gatto, ce lo vogliono proprio finire.
Sale il vento.
Aldo ha una camicia verde pisello mezza sbottonata, la maglia della salute che gli spunta da sotto e un paio di pantaloni marroni tenuti su con delle bretelle nere. Dà proprio l’aria del contadino.
E’ un bel fresco all’ombra dei pini, con questo venticello. Il sole sta calando ma è sempre parecchio alto.
Stasera andrò al circolino a vedere la partita, programma mentalmente. Scommetto che a vincere sarà l’Italia. Ci sarà poi anche Lapo, quel tonto, che si farà un bicchiere di vino ogni tre minuti. Per allentare la tensione. Ma poi a casa briao tegolo chi ce lo riporterà?
C’è anche che non è per niente vero che a invecchiare si diventa più furbi, pensa Aldo mentre per caso si guarda le mani grandi e callose.
Il gatto è sempre lì, tutto sbuzzato. Cuoce al sole e all’asfalto. Gatto grigliato.
Ad andare verso Montescudaio intanto nasce un po' di fila. Gli operai smontano e fanno un po' d’ingorgo.
Pomeriggio fatto di niente, come tanti e tanti altri dall’inizio dell’estate, ma implicitamente allegro.
Aldo guarda le macchine, come a voler partire con loro. Lontano lontano, ovunque va bene. Ovunque è indifferente.
Prova a leggere le targhe, ma gli occhi ormai si rifiutano di piegarsi a richieste così difficili. E poi che gusto c’è adesso a leggere le targhe? Ai tempi era il passatempo più simpatico in autostrada: con le sigle delle provincie Marisa si divertiva coi bimbi a formare parole. E quando erano finite si inventavano.
Oppure Michele iniziava a dire «Dov’è RM?», «Dov’è BR?», «Ma VA vuol dire Vada?», «Perché solo le città grandi hanno la targa? Voglio inventare una targa apposta per Riparbella!»...
Ricordi, sempre ricordi. Ma cos’altro può fare un vecchietto come me, si lamenta bonariamente.
Ora i bimbi sono grandi e ci sono stati a RM, a BR e anche all’estero dove ci sono le targhe gialle e si guida dall’altro lato della strada.
Il gatto non ha bisogno di targa, sbuzzato nel bel mezzo della via per la Steccaia.
Già. Laggiù c’è la Cecina, e il guado. Ora c’hanno fatto il ponte, ma ai tempi si scendeva giù nel ghiaino e si passava da un ponticello che stava sommerso tutto l’inverno rendendo la strada inservibile.
Era una meta di scampagnate primaverili.
Erano belli quei tempi. Non si pagava l’acqua a peso d’oro e la gente sorrideva più spesso. O forse no, forse si sorride anche oggi e io non sono più nel giro... Risata sonora a quei pensieri, tanto non c’è nessuno a sentirlo. E poi, comunque, l’improvvisa esplosione di riso del vecchietto non può proprio disturbare. Risata amara sorta da tutte le ferite che in media si accumulano nella vita tanto quanto da quel passionale sapore che può incontrare talvolta chi ha imparato a gustarla, la vita.
Come le ciliegie sciroppate che faceva la Marisa, ricorda ancora Aldo tra sé completando il cerchio dei suoi pensieri esistenziali: quando si tirava su l’acqua rossa dal cucchiaino per berla piano dopo aver mangiato la ciliegia, pareva di sentire ogni volta un sapore diverso. Nuovo. Simpatico.
Forse la vita in quel momento, a due passi dalla rotatoria e mentre gli operai del comune tornano a casa tra i borbottii degli automobilisti infastiditi, ad Aldo pare proprio come un sapore dolce e forte sulle labbra, giocando col nocciolo di una ciliegia tra i denti e la lingua.
Via, le bottiglie. Vanno riempite, e poi si torna a casa.
Aldo torna all’Ape, prende le bottiglie vuote e ad una ad una, lento, le riempie alla fonte. L’acqua è fresca e pulita, prende il suo posto dentro la bottiglia senza brontolare e quasi contenta di far risparmiare quasi dieci euro al vecchio. Una bottiglia. Due. Dieci. Il sole picchia un po' meno ma in compenso passano più auto. Ventiquattro, e il lavoro di Aldo è concluso. Sistema le bottiglie dietro, nel piano rugginoso del suo glorioso mezzo di locomozione, si lava il viso, tanto ormai è già mezzo ammollato dagli schizzi fatti prima, e si mette le mani in tasca per cercare le chiavi dell’apino.
Il gatto è sempre lì.
Forse non è giusto. Anzi, sicuramente.
Nessuno si merita di esser schiacciato tutto un pomeriggio dalle ruote dei macchinoni dei tedeschi che vengono a colonizzare i nostri agriturismi, anche se hanno perso due a zero e se le tengono belle calde quelle reti spettacolari. Ma anche se non fossero tedeschi non andrebbe lo stesso bene.
Il gatto è morto, e dunque ormai ci può passare sopra un carrarmato. Ma non è bello. Fa un po' schifo a guardarlo.
Magari qualcuno ce lo leverà.
Magari un giorno qualcuno deciderà che le cose belle hanno più senso di quelle brutte.
Magari anche un vecchietto d’estate a poche ore dalla finale dei mondiali può dare una lezione al
mondo davanti alla rotatoria per Montescudaio.
Nessuno lo saprà mai. Aldo toglie il gatto dalla strada e lo lascia tra l’erba alta dietro la chiesetta, si lava di nuovo le mani e torna a casa. Mangerà presto per trovarsi in orario con gli amici del bar e vedere la partita.
Non importerà a nessuno, no.
Aldo è felice. Comunque.
ho letto i primi 4 racconti. vede, se lei riuscisse a non scivolare (troppo spesso) in certe forme di "linguaggio osceneggiante" (dunque retrivo) sarebbe uno scrittore straordinario. il turpiloquio ha il difetto di diventare all'istante una specie di vaniloquio letterario.
lei provi a togliere qualche cazzo qua e là e vedrà come tutto diventa modernissimo.
non deve pensare che io sia un moralista solo perché faccio il rappresentante di articoli sacri. no, faccio soltanto un discorso di estetica letteraria, ossia di antiletterarietà. una frase tipo: "ma fatti i cazzi tua!" oggi è iperletteraria. mi pare evidente.
in ogni caso - a mio parere - lei ha talento da vendere.
un plauso a quel cialtrone del trasciatto per aver pubblicato i suoi "sogni di libeccio".
a proposito: il titolo è molto appropriato ma secondo me un po' troppo vago, e in fondo poco aderente alla sostanza vera del libro.
dunque mi auguro di vedere presto una seconda edizione deoscenizzata e con un titolo perfetto.
roberto vannini rappresentante di articoli sacri e fratello di nedo (da lei giustamente citato ne "il gorgonzola non dura niente"
caro Roberto,
questa critica mi manda in fibrillazione. I toni sono quasi profetici e l'acume è veramente notevole. Sono onorato che ti piacciano i miei raccontini, e mi sento di condividere anche i tuoi appunti di estetica letteraria.
Non sono convinto che "fatti i cazzi tua" sia iperletteraria o trita, anche nella remota e demenziale ipotesi di considerare Il Vernacoliere tra le riviste letterarie più classiche.
Quello che affligge i miei racconti è piuyttosto - entro i confini di questo turpiloquio - la eco "strapaesana", come mi ha detto Sergio Pent, onorandomi di una sua critica benevola ma spietata: il personaggio non dice "tuoi", non affetta il discorso: dice "tua", in volgare, promettendo in un'escamazione ormai incancrenita nel parlato vernacolare e significando però altro.
"Amai trite parole", parafrasando Saba, perchè sono quelle delle quali è intrisa ogni storia, e che permettono invenzioni letterarie invece inedite. Tra queste trite parole c'è anche, juxta modum, il turpiloquio. Forse però il modo del turpiloquio che profeticamente mi indichi tu, secondo un'estetica dai connotati etici che fa parte anche della mia ricerca stilistica, è la sua assenza simpliciter... ci penserò su.
Una piccola apologia, dunque: dal "fatti i cazzi tua", in quel racconto, si passa al "nella prossima vita mi chiamerò Nedo", evidenziando una ideale (ma ahimé vana, se non si considera la risoluzione finale della vicenda nell'ultimo racconto) via di fuga alla scialba esistenza senza sogni cui il protagonista si trova a interagire.
Il limite che evidenzi (permettimi di darti del tu) è nondimeno presente e me ne rammarico. Spero in futuro di poterlo superare, grazie anche alle critiche ricevute ultimamente (quale la tua) che mi aiutano ad accorgermi di questo tarlo pernicioso nelle mie prose.
Concordo anche sul titolo: evocativo ma vago.In qualche modo evidenzia un "personaggio" comune a tutte le storie, appunto ill vento di libeccio, che è icona di un dinamismo vitale ricercato con violenza ma forse con non troppa convinzione "umana".
Roberto, vigila sui miei turpiloqui: non mi va che squalifichino il mio lavoro.
Grazie grazie grazie.
Sir Libeccio
Caro Libetico,
il Vernacoliere non è del tutto un foglio aulico, ma ha risvolti di un preziosismo a volte “di nicchia”(spero non sia parola "topica"!). “Cazzi tua” è infinitamente più prezioso di “cazzi tuoi” proprio perché ha una nobiltà vernacolare... Ma è sempre un linguaggio “datato” come tutto quello che in altre epoche è stato “d'avanguardia”. La tua maniera di usare il parlato, dal punto di vista sintattico, è invece molto moderna: non si avverte il peso del manierismo, forse perché alla radice della tua tecnica c'è un impulso vero, e, per così dire, il suono trova istintivamente l'emissione giusta.
Io non so in che cosa potresti trasformare ad esempio quel “pelo di topa” (che nel tuo racconto avrebbe una sua splendida ragione di esistere se non diventasse all'istante orrendamente letterario)... Insomma, in fondo un pelo di topa manca di umiltà poetica. È troppo affermativo, e tu sai meglio di me come la poesia si faccia più che altro con la reticenza.
In realtà, a mio parere, non è tanto lo strapaese che ti nuoce quanto il rischio di scivolare sulle bucce di banana del linguaggio conformisticamente cazzuto e toputo, che è poi il linguaggio medio, di media imbecillità, di media incultura... mi pare che i tuoi personaggi meritino una buccia verbale più aderente alla loro psicologia (che è quasi sempre abbastanza complessa e originale).
A me, tra l'altro, piace moltissimo la tua vena ironica che non sconfina MAI nel calore della comicità. Potrebbe sembrare un limite, ma secondo me è una forza.
roberto vannini commesso viaggiatore
Mi permetto di contraddirla, Vannini. Se Libetico - che pure ha molte frecce al suo arco - sapesse toccare anche le corde del comico, secondo me ci guadagnerebbe. Il comico, in fondo, mi pare una forma superiore di tragedia, cioè capace di cogliere il fondo tragico della condizione umana e al tempo stesso di relativizzarlo. Forse sto parlando del tragi-comico. E' una questione di leggerezza. E' chiaro che uno scrive secondo quella che è la sua vena e le sue corde. Diciamo che il mio è un auspicio per Libetico, a che, negli anni sappia librarsi sulle disgrazie universali e particolari con un tocco di leggerezza e di distacco che ora gli manca. Dice il Pignagnoli: "Se non c'è niente da ridere, vuol dire che non c'è niente di tragico. E se non c'è niente di tragico, che valore vuoi che abbia?". Comunque la scoperta di Libetico va attribuita al buon Mondadore Sebastiani, io non ho fatto altro che seguire il suo suggerimento di leggere i racconti di Libetico e confermare il suo giudizio. E poi naturalmente decidere di pubblicarlo. Son contento di averlo fatto.
Il direttanti
No Direttatti,
il comico "in fondo" non è una forma superiore di tragedia, è piuttosto una delle possibili vie di fuga dalla tragedia. La tragedia suprema è quella che non ha vie d'uscita e allora implode nell'assurdo. Che poi l'assurdo abbia - a volte - un'apparenza comica può essere vero. Ma è soltanto apparenza.
nedo vannini psichiatra tragico
Può darsi che lei abbia ragione. Libetico comunque è tutt'altro che assurdo. Credo che un po' di assurdo non lo guasterebbe, ma non so se sia nelle sue corde, la sua vena è un'altra. A me piacerebbe un Libetico più lieve, più leggero nelle apparenze(non pretendo leggiadro). Ma forse si diventa leggeri da vecchi.
Trasciattuoli
Sono d'accordo con entrambi, come consiglierebbe un vecchio proverbio hiddish. Ma vi faccio una domanda: comico e tragico non sono forse da riscontrarsi ad un livello ulteriore dell'ermeneutica rispetto alla semplice considerazione del racconto nudo e crudo?
Mi spiego: secondo l'ermeneutica medievale, che secondo me rimane la migliore tra le varie chiavi di lettura possibile per un testo, i vari significati attribuibili ad un racconto si costituiscono nel "cuore" del lettore sul fondamento oggettivo del fatto narrato.
Quel che conta non è il comico, ma l'assurdo. Ovvero il mondo di cause-effetto dove si situano le storie. Se questo mondo "fa cilecca" nei nessi causali, allora è assurdo. Altrimenti potrà essere fantastico quanto si vuole, ma assurdo mai. Nella toscana di Collodi, non è assolutamente assurdo che si abbia un pezzo di legno che parla, per quanto strambo e fantastico possa essere...
A me non piace l'assurdo. Dunque cerco di toglierlo dai miei racconti deliberatamente, anche quando ci potrebbe cader bene. Perchè la realtà supera tanto la fantasia quanto l'assurdità. I fatti come sono vanno oltre di comico, di tragico, di ironico e di grottesco. Forse perchè nulla di questo è una proprietà dell'oggetto, ma del soggetto.
E anche qui siamo all'ermeneutica medievale.
Dovrei smettere con la roba che studio. Scusate. Trasciatti, dì a Learco che il Cacciucco è buono, e che smetta di non esistere per divertirsi ad incarnare l'assurdo, che cento talleri immaginati in fondo non valgono un fico secco.
Sir Libeccio
Che il Cacciucco ti piaccia mi rende lieto, caro Libetico, se poi ne vuoi discettare qui o altrove (anche in privato) mi renderà ancora più lieto (il discettamento comprende anche eventuali critiche, gli osanna li riserviamo al Vannini). Però, secondo me, nel voler togliere deliberatamente l'assurdo da ciò che scrivi, ti fai un po' di torto. Sia chiaro, ognuno scrive secondo quella che è la sua indole, ma conoscendoti, so che culli in te parecchio assurdo e anche parecchia giocosità. Che però spariscono quando metti il tutto nero su bianco. Concordo con quanto disse qualche giorno fa il Vannini, cioè che nel complesso i tuoi libecciamenti sono eccellenti, è roba buona insomma, e lo sai che lo penso. Però mi colpisce questo tuo rigore letterario. Secondo me giocar di più con le parole non ti guasterebbe...
direttanti
In certo qual modo hai ragione, oulipico direttOrco. Mi conosci e sai che cullo molto assurdo e molto gioco.
L'assurdo lo cullo anche nella letteratura. L'ultimo racconto che ti ho mandato, una illazione letteraria abbastanza assurda motivata da una lezione alla Barnabooth, però non l'hai messo sul sito. Aspetti che ce lo metta io?
Il gioco... ah, è una cosa seria!
Conoscendomi direi che gioco parecchio, e anche con le parole. Ma non quando scrivo.
Non so perchè, forse perchè gioco abbastanza prima. Gioco con la teologia, con l'etica, con la storia, con i giochi di ruolo, col teatro, con i videogames, con il corpo e con lo spirito. Ergo, va a finire che quando mi siedo a scrivere sono sazio di gioco e sviluppo il senso (ed il significato) di quello che scrivo con un "rigore", come dici te, diverso.
Non so se sia vero rigore. Ma di sicuro è come una sorta di calcio piazzato, una punizione al limite dell'area, perchè quando scrivo arrivo già in qualche modo purificato da tutto quello che potrebbe dar adito ad una produzione autoreferenziale, come rischiano anche l'assurdo ed il ludico, e mi concentro - o almeno così vorrei fare - sulle componenti più ironiche di quel che colgo nella realtà.
Più che una scrittura rigorosa vorrebbe essere solo fenomenologicamente onesta.
Sir L
Non ho alcun interesse per l'ermeneutica medievale, e in generale non mi interessa nessun tipo di interpretazione di un testo. Benché non sappia assolutamente che cosa sia l'assurdo ritengo che nei racconti di Libetico di assurdo ce ne sia il giusto (ossia moltissimo). C'è quella specie di “sospensione del comune senso del reale” che costituisce la poesia. Ecco, i racconti di Libetico sono “costituzionalmente poetici”. Il Comico, in una scrittura del genere, verrebbe proprio a distruggere questa “sospensione del comune senso del reale”. Dunque caro Libetico vai bene così. Il Trasciatto è trasciatto c'è poco da fare. NON LO ASCOLTARE.
Tu devi SOLO togliere TOTALMENTE il turpiloquio giovanilistico/strapaesano che infesta le tue pagine. Il resto è perfetto.
n.v.
Ma guarda te, mi tocca parlare contro uno dei miei autori e tutto per colpa di questo fastidiosissimo Vannini che si vuole impicciare di tutto accidenti a lui e a chi non lo ha sciolto nell'acido. Insomma, Libetico, io voglio solo dirti che rischi di prenderti troppo sul serio quando scrivi e - per come la vedo io - è questo il terreno fertile per le cadute di stile e per le derive in genere, come (nel caso tuo) quelle che portano a un uso un po' consunto e/o giovanilistico del turpiloquio e allo strapaesano. Secondo me è tutto qui, lo stile riflette lo spirito, il modo di concepire la letteratura, se la consideri una cosa da fare seriamente e non un gioco, allora vai incontro a dei rischi. Anche retorici, di stile insomma. Chiaramente, ogni gioco per essere divertente deve essere giocato seriamente. Ma sapendo che è un gioco. Accidenti al Vannini che mi confonde il cervello.
Quanto al racconto assurdo cui accenni, caro Libetico, ti pregherei di avere pazienza e di rimandarmelo. Lo sai come funziona questa baracca di computer da cui ti scrivo: sicuramente se lo è mangiato.
Con ottenebranza da dopocena
director trascutti
Sciolto nell'acido? Il Vannini? Come il Joker di Batman? Naaaa, non ce lo vedo...
Sul gioco.
Mi piace un sacco questa conversazione.
Il gioco non è una parte dello stile. Il gioco è uno stile. E' un mezzo.
Talvolta, nel gioco, mezzo e fine coincidono. Il gioco per il gioco, si direbbe. Così è per i giochi di ruolo, ad esempio. Talvolta mezzo e fine sono aristotelicamente differenziati nel loro oggetto, come in questo caso. Il gioco è il mezzo con cui plasmo il racconto. Ma il fine è il racconto, non il gioco di per sè, altrimenti ad esempio non avrebbe senso neanche la pubblicazione. Se mezzo e fine coincidono, non c'è bisono di una fruizione esterna, non trovi?
Io penso che gli errori che riscontrate - e pure io riscontro - nei miei testi non sono da attribuirsi all'estromissione della ludicità nell'orizzonte creativo, ma ad un non ancora compiuto affrancamento da certi stereotipi.
Se qualcuno volesse saperne di più su cosa ne penso io del gioco, perchè non va a vedere il mio sito? Scrivendo Alessandro Biagetti su Google, dovrebbe essere il primo ad apparire... he he he...
A presto direttore. Ho scovato un posticino dove c'è dell'ottimo cacciucco.
Sir Libeccio
Senti Libetico (vada per il tu),
come saprai sei quasi completamente pazzo. Ma quasi completamente che vuol dire? Non si sa.
Vedo che ridacchi. Ti fai fotografare in pose narcisistico-conflittuali. Scrivi racconti con un substrato autocastratorio... La diagnosi così su due piedi non mi viene. Propenderei per una "paranoia rapsodico-peristaltica" ma non sono sicuro, perché la discontinuità non è abbastanza ritmica, e l'armoniosità dei deliri tutto sommato farebbe pensare a una "schizofrenia ricompositiva".
La fissazione sui giochi di ruolo sembrerebbe un'appendice maniacale (che non disdice in nessun caso clinico). Fa pensare semmai a un autismo completamente rielaborato attraverso una ristrutturazione liturgica dell'io.
Credo che dovresti venire a vivere nel mio ambulatorio. Ma dovremmo liberarci del Direttore che come vedi è un'enorme piattola gelosa di tutto e di tutti.
Nedo Vannini Psichiatra
Sì, sono molto geloso nel senso che amo il gelo, le fredde nevi dei paesi baltici, le coste lituane, i fiordi e il brutto mare di Barens. Ma per contrasto e contrappeso devo dire che mi piacciono molto anche le coste mediterranee e le isolee egee dove non sono mai stato. Ma sai tu Vannini paraglifico che oggi si festeggiano i Cinquant'anni del Gattopardo di Lampedusa? A questo non ci pensi? Dovremmo fare un po' di celebrazioni. Comunque, giacché sono sportivo e apprezzo le performazioni anche dei miei avversari acerrimi, mi complimento per la diagnosi che hai fatto a Libetico. Non so se corrisponda in niente alla realtà psico-letteraria del soggetto, ma indubbiamente ha una sua forza interpretativa, una sua eloquenza medicale (o medicea?) che non posso impedirmi di elogiare.
Direttonte
Dottore,
si sa che il malato odia che gli si dica quello che non vuole sentire.
Ma io con sportività apprezzo.
Si, sono quasi completamente pazzo, di una pazzia che però - come sottolinei - non ha la lucidità cristallina e se volessimo anche logica di un orologio a pendolo d'epoca vittoriana. Piuttosto è l'asincronia. Il mio cervello è un turibolo maneggiato con disattenzione da un chierichetto claudicante. Schizofrenia liturgica, mi vien detto.
Approvo. Tre pater e un gloria.
Senti Libetico,
dobbiamo eliminare il Piattolatti. Io non ti posso curare con lui che sbircia la nostra corrispondenza.
n.v.
Il mio prossimo libro si intitolerà il Mar delle Piattole.
Landolfatti
piattolatti vai curato. ma io non lo so se nono in grado. non lo so. non lo so più... e poi il mio ambulatorio dov'è????
nedo vannini
Vannatti mi sembri scemo. Cioè ti manca proprio un pezzo, una falda.
p.atti
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O que é isso?
Direttore, ma sta aprendo una farmacia?
Non può mica prescrivere farmaci così, a casaccio!
Però ci sono anche le alternative per Cipro...
Un Antao Sacarolhas non molto convito dalla strana passione per i farmaci del direttore . Se ne tenga alla larga, glielo dice un farmacogenomico e non un farmaco generico.