Aug
12
Pensare con i polmoni
Mar, 08/12/2008 - 21:15
La voce nella storia della filosofia occidentale
di Ilaria Biagini
Scarica la tesina in PDF oppure leggila qui sotto
Introduzione
Il tema di queste pagine è l'indifferenza della metafisica occidentale per la voce intesa come elemento di unicità che fa di ognuno un essere umano diverso dagli altri e in relazione con gli altri. Gli aspetti di unicità e relazionalità, sono stati intenzionalmente negati affinché la filosofia potesse fondarsi su basi universali e astratte, escludendo il vocalico come fattore perturbante.
Dell'argomento tratta Adriana Cavarero nel saggio "A più voci. Filosofia dell'espressione vocale". Studiosa di filosofia politica e differenza di genere, l'autrice ripercorre la storia della voce come una specie di controstoria rispetto alla ben più nota storia del concetto. Seguendo l'argomentazione di Cavarero possiamo ricostruire le tappe che hanno visto l'occultamento della voce, del corpo e di tutto ciò che rimanda all'unicità e all'individualità incarnata, a favore di una speculazione filosofica che ha come oggetti la parola significante, la mente, l'universalità astratta. La filosofia ha paura della voce perché ha paura dell'unicità che rimanda al corpo, al suo potere di suscitare passioni e trasgressioni.
L'argomentazione si articola in quattro brevi capitoli nei quali, a partire dal tema dell'unicità della voce, si passa a analizzare la tappa cruciale della fondazione della metafisica occidentale con Platone che rifiuta il canto di Omero. Seguendo la traccia del saggio di Cavarero si continua a seguire la sorte della voce come elemento specificamente corporeo e dunque femminile, attraverso il destino prima delle Muse e delle Sirene omeriche poi delle cantanti d'opera. La conclusione accenna alla necessità di riflettere sull'unicità e la relazionalità della voce come nuova prospettiva filosofico-politica che valorizzi, in un'epoca di globalizzazione, una comunicazione tra soggetti che si mettono in gioco con la loro unicità incarnata e non più astratta.
I. L'unicità della voce
La voce umana è un suono prodotto-emesso sfruttando il passaggio dell'aria attraverso la gola e la bocca. Nell'ambito etimologico della vox latina, il primo significato di vocare è chiamare, invocare. Prima ancora di farsi parola, la voce è un'invocazione rivolta all'altro e fiduciosa in un orecchio cha la accoglie. La sua scena inaugurale coincide con la nascita. Il bambino, con il suo respiro iniziale, invoca una voce in risposta, chiama un orecchio a raccoglierne il grido. Dopo che il legame intrauterino, già ritmico e musicale, viene spezzato, il primo vagito invoca un nuovo legame sonoro con l'altro, anzi con l'altra, la madre. La voce è sempre per l'orecchio: è relazionale e il legame sonoro tra la voce del bambino e la voce della madre instaura la comunicazione primaria di ogni comunicabile, ne costituisce il prerequisito. Non c'è infatti ancora niente da comunicare se non la comunicazione stessa nella sua pura vocalità.
Centrale nei primi mesi di vita, questa relazionalità vocalica si prende il suo tempo prima di consegnarsi al sistema del linguaggio.
Si tratta di una relazione acustico-vocale in cui non c'è ancora significato, rimando a un referente secondo la struttura linguistica del segno, bensì invocazione reciproca in cui le voci si convocano a turno. Tale cadenza ha i suoi ritmi temporali, la sua partitura comunicativa, una sua qualità musicale. Il bambino riconosce la voce della madre e con lei duetta e nell'esercizio vocalico si evidenzia l'unicità della voce.
Come scrive Italo Calvino nel racconto "Un re in ascolto", tratto dalla raccolta Sotto un sole giaguaro: "una voce significa questo: c'è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell'aria questa voce diversa da tutte le altre voci."1
Sin dalla scena materna, la voce manifesta l'esser unico di ogni essere umano e "potrebbe essere l'equivalente di quanto la persona ha di più nascosto e di più vero"2, una sorta di nucleo invisibile ma immediatamente percepibile dell'unicità. Quando vibra la voce umana c'è qualcuno in carne e ossa che la emette. Nell'unicità che si fa sentire come voce è un esistente incarnato a farsi sentire. Anche senza la mediazione della parola, la voce comunica i dati essenziali dell'esistenza: l'unicità e la relazionalità.
Nel saggio dal titolo "L'anima nella voce" Françoise E. Goddard sostiene che si possa leggere una persona attraverso i segni che distinguono la sua voce, perché la voce è vibrazione dell'anima, è immediatezza comunicativa. Secondo Goddard, dalle caratteristiche della voce, specchio dell'interiorità, e soprattutto della voce nel canto, si possono capire condizioni e problemi della vita personale. Scrive infatti: " Un problema psichico o semplicemente psicologico, la non accettazione di un nostro aspetto caratteriale creano una costrizione su un certo numero di muscoli coinvolti nella fonazione, che di conseguenza modificano e deformano il suono che emettiamo. Questo succede ovviamente anche quando semplicemente parliamo, ma cantando, difetti e qualità vengono in qualche modo esaltati e "illuminati"..."3. Goddard, che vede nel canto uno strumento di evoluzione personale, ne valorizza l'elemento relazionale e comunicativo : "il cantante cerca qualcuno per comunicare e la sua comunicazione è di tipo positivo. L'azione è immediata e il riscontro quasi simultaneo..."4.
II. La filosofia è sorda?
Ci sarebbero dunque validi motivi per fare della voce il tema privilegiato di una riflessione che riguardi il problema dell'ontologia5. Eppure qui sta la sorpresa: la tradizione filosofica ignora l'unicità della voce. La ignora proprio perchè la filosofia occidentale ha ignorato l'unicità in quanto tale, in qualunque modo essa si manifesti. La tradizione filosofica predilige l'universalità astratta e senza corpo, luogo di una parola che non esce da nessuna gola di carne, considerando superflua, e quasi imbarazzante, l'unicità incarnata che distingue ciascuno da ciascun altro, la singolarità irripetibile di ogni essere umano. La filosofia proclama l'indicibilità epistemologica del singolo essere umano in quanto particolare, ne ignora la voce e ne considera solo la sua forma universale, l' "uomo", il "soggetto", l' "individuo", astratto, senza corpo.
Tutto inizia in Grecia in cui si inaugura un sapere che separa la parola dai parlanti e la fonda nel pensiero. La parola diventa allora espressione, significante acustico del pensiero e la voce diventa semplice espressione sonora che prescinde dall'unicità vocalica di chi la emette.
Nella Grecia dell'epoca classica il vocabolo greco phoné si applica sia alla voce umana che a quella animale oltre che a qualsiasi altro suono udibile. La peculiarità dell'approccio filosofico al tema della voce sta nel fatto che i filosofi, turbati da una phoné condivisa da uomini e animali, si preoccupano di sottolineare che nell'uomo è phoné semantikè, ossia voce significante. In particolare Aristotele, nella Poetica dice che il logos, ovvero, la ragione, il discorso, è phoné semantikè e distingue gli uomini dagli animali sottolineando che soltanto nell'uomo la voce è suono che ha un significato, a differenza della voce animale che è solo segno di piacere o dolore, è grido o guaito.
La voce, prima della parola o indipendentemente dalla parola è dunque semplicemente voce animale, fonazione a-logica in quanto a-semantica. La phoné dei filosofi non allude a nessuna comunicazione originaria ma è irrimediabilmente intenzionata a significare. Se non fosse semantikè , significante, la voce sarebbe suono vuoto, eccedenza inquietante perché vicina all'animalità.
Come specifico oggetto dell'interesse filosofico la voce umana è presa in considerazione solo in quanto sonorizza i significati e fornisce una veste acustica al lavoro mentale del concetto, rendendo la phoné un fattore secondario e strumentale al regno dei significati. In questo modo la filosofia rende inconcepibile un primato della voce rispetto alla parola. La voce dipende irrimediabilmente dal significato. Questa dipendenza è cruciale nella filosofia occidentale: essa comporta una subordinazione della sfera acustica alla sfera visiva. Il suono serve solo a evocare l'idea ma l'idea è un oggetto del pensiero, un'immagine mentale, caratterizzata da visibilità, chiarezza, evidenza. A partire dalla filosofia greca, la storia della metafisica può essere raccontata come la strana storia di una devocalizzazione del logos . Inoltre il fine ultimo della filosofia è una contemplazione silenziosa delle idee astratte, dei puri significati, senza nemmeno l'ingombro del significante verbale e tantomeno della voce che diventa filtro acustico contaminante.
Ciò che ogni voce in quanto voce significa, ossia l'unicità e la relazionalità che il vocalico manifesta, non giunge così nemmeno a proporsi come tema di riflessione. Il logos, devocalizzato, tende a coincidere col pensiero.
Ma il pensiero non è solo contemplazione di idee. Pensiero è anche qualcosa di meno statico; è legame di parole, è ragionamento che raccoglie, vaglia, calcola, discorre.
Questo costituisce un problema nella storia della filosofia. Il pensiero è contemplativo o discorsivo? Emblematica è la pagina del "Sofista" di Platone in cui il filosofo dopo aver affermato che pensiero e logos sono la stessa cosa, dice che uno (pensiero) è il dialogo senza voce che l'anima fa con se stessa, l'altro (logos) è il flusso dell'anima che esce dalla bocca insieme alla voce. Sembrano le due facce di una stessa medaglia. Il pensiero è allora logos insonoro dell'anima con se stessa che, esternandosi, si vocalizza. Il discorso parlato è una sonorizzazione del discorso pensato. La filosofia sembra non poter prescindere dalla voce? Non proprio. Platone insiste sul registro metaforico di un'anima che parla a se stessa, che non prevede altri interlocutori che se medesima. Si tratta del soliloquio di un io il cui orecchio disincarnato si concentra nell'ascolto della propria voce insonora. L'anima può fare a meno della voce corporea e dedicarsi a quella metaforica.
L'eliminazione della fisicità della voce, la liberazione della parola dalla corporeità del fiato e della voce inaugurata dalla filosofia platonica ha un prezzo alto: significa eliminare la relazione con l'altro, gli altri, gli esseri umani particolari, a favore di un discorso tutto interiore. La naturale relazionalità del vocalico è neutralizzata a favore di una voce silenziosa e interna che produce una relazione di tipo autoreferenziale.
Eppure prima di Platone, nella fase arcaica della filosofia greca, le cose stavano diversamente. In Grecia, così come in altre culture, sembra che il pensiero sia legato alla respirazione e alla fonazione, sia un prodotto dei polmoni. A differenza di Platone che situa il pensiero nella testa e precisamente nella parte divina del midollo costituita dal cervello, per i greci più antichi il pensiero è strettamente legato alle parole e al respiro insieme al quale vengono emesse6. Nei poemi omerici si ritrova questo legame del pensiero con la parola e della parola con la voce e il respiro. In Omero, ma anche nei frammenti del filosofo Empedocle, troviamo che il respiro ha la sua fonte nei polmoni in cui è contenuta una sostanza aeriforme, lo spirito, che consiste in una esalazione del sangue la quale si concentra intorno ai polmoni e al cuore. Qui si trova il pensiero.
Prima del trionfo della metafisica i greci sono dunque convinti che si pensi con i polmoni e non col cervello. La mente e le attività intellettuali si situano nell'apparato respiratorio e negli organi di fonazione. Mediante la voce, il respiro esce dal cuore del parlante in forma di discorsi che sono accolti dall'ascoltatore nel suo proprio cuore e ne arricchiscono la conoscenza. L'immaginario arcaico procede attraverso una serie di associazioni che sembrano ovvie: il pensare rimanda al parlare e il parlare al complesso di funzioni fisiologiche situate fra bocca, naso e petto che riguardano la respirazione e l'alimentazione.
Situando il pensiero nella testa e non nei polmoni Platone sicuramente anticipa un quadro scientifico più veritiero ma si rende responsabile di uno spostamento metafisico: la misura dell'essere umano viene spostata dalla fisicità del corpo all'impalpabilità della mente. In più, con la metafisica il pensiero sta nel cervello ma non è il prodotto del midollo dell'encefalo. Spostandosi dai polmoni alla testa il pensare si autonomizza da ogni causa corporea e guadagna il suo statuto metafisico, caratterizzato dal suo essere insonoro. Isolata dagli organi di fonazione, la materia molle del cervello, in cui risiede il pensiero, è muta. Qui ha sede l'anima. L'anima, la psyché , con il successo della tradizione filosofica inaugurata da Platone, si identifica con la mente. Eppure il termine psyché deriva dal verbo psycho che significa soffiare e nel pensiero arcaico, dove pensare è parlare e parlare è respirare, se nella psyché non c'è respiro non c'è voce e perciò non c'è pensiero. Platone cambia il quadro: identifica la psyché con una mente che prima era situata nei polmoni, inaugurando una concezione che ci appare più familiare.
Alla luce di questo si spiega l'ostilità di Platone per Omero, emblema della civiltà orale. Nei versi omerici, composti come una musica, cantati e accompagnati da una cetra, il suono della parola è più importante del suo significato.
Questo aspetto della parola poetica è sottolineato anche da Roberto Vecchioni nella sua Lectio magistralis su "Poesia e comunicazione" tenuta a Bologna nel 2006, il quale mette in evidenza come il potere e il mistero della poesia stia proprio nel suo carattere di parola- evocazione prima che di parola-messaggio. La parola-evocazione della poesia non si esaurisce in se stessa ma trasmette sensazioni, "evoca, appunto, chiama fuori, rimanda ad altre immagini, ad altri concetti, ad altre sensazioni. Il canto, a queste condizioni, libera ed esprime dunque uno stato d'animo scavalcando il concetto astratto della parola e [...] arriva diretto al terminal della nostra gioia, del nostro esclusivo dolore "7. Proprio perché eccede l'elemento razionale del significato, della parola-messaggio, la poesia e il canto sono ritenuti elementi perturbanti l'ordine costituito.
Platone non critica infatti i significati, ma l'importanza dell'elemento acustico, la potenza della voce, il fascino del canto e dei suoni, il godimento corporeo dell'orecchio. Platone combatte l'epica e la poesia perché teme le passioni suscitate dall'effetto seduttivo, corporeo e incantatorio della phoné 8.
Il passaggio da Omero a Platone segna un altro fondamentale passaggio, quello dall'oralità alla scrittura, passaggio che implica la sostituzione della centralità dell'orecchio con il primato dell'occhio. La tecnologia della scrittura produce infatti una specifica struttura mentale, corrispondente a un modello di pensiero che deve la sua matrice organizzativa alla sfera dell'occhio invece che a quella dell'orecchio. La parola si trasforma da evento sonoro a immagine che può essere organizzata visivamente, posizionata nel discorso secondo un processo spaziale, lineare, analitico, rivedibile. La scrittura si sottrae al flusso evanescente e socializzante dell'oralità per consegnarsi alla permanenza fatta di una struttura che lega le parole in concatenazioni causali, ordinate e controllabili.
Sebbene Platone si renda conto che la scrittura devitalizza la parola, preferisce la parola scritta a quella parlata poiché teme il godimento acustico, teme la voce che è ritmo e respiro che suscita emozione e seduzione e pertanto sfugge al controllo del sistema videocentrico del linguaggio. Questo fa sì che l'unicità della voce non diventi esplicito oggetto di riflessione.
III. La voce e la parola: il femminile e il maschile
Per la narrazione epica Omero si affida alla voce e in particolare a quella femminile. Nei poemi omerici è la Musa a ispirare col suo canto il poeta che narrerà le vicende che la Musa stessa ha visto e vede accadere. La Musa, testimone degli accadimenti umani, racconta solo al poeta, a Omero, cieco, ciò che ha visto. Il poeta è orecchio speciale della voce divina e mediatore agli uomini di ciò che la Musa gli canta con voce armonica che induce al delirio poetico. Per questo l'epica preoccupa Platone.
Un'altra figura femminile che nei poemi omerici usa la voce per narrare cantando è la Sirena. Come le Muse anche le Sirene nell'Odissea narrano cantando, la loro vocalità non annulla la parola. Eppure la tradizione occidentale non tiene conto del legame tra voce e parola, del fatto che il canto di Muse e Sirene è non solo voce seducente ma anche racconto di eventi ed eroi.
Nella tradizione che va dai latini fino ai giorni nostri le Sirene tendono ad essere rappresentate come esseri mezze donne e mezze bestie, dalla pura voce armoniosa, irresistibile e mortale. Il canto delle Sirene privato della parola significante, somiglia al grido animale. Comunque già il canto delle Sirene udito da Ulisse, pur essendo narrazione di ciò che queste creature hanno visto e vedono accadere sulla terra, è soprattutto canto che provoca un tale godimento acustico da risultare mortale. Per questo la maga Circe dice a Ulisse di sciogliere cera nelle orecchie dei compagni e farsi legare strettamente all'albero della nave per poter udire il canto delle Sirene senza rimanerne vittima. Tutto il pathos del racconto omerico sembra focalizzarsi sul circuito mortalmente seduttivo tra voce e ascolto, suono e orecchio. Quest'ultimo aspetto è quello divenuto più famoso. L'elemento narrativo del canto di Muse e Sirene, fonte della poesia epica, si perde in destini diversi. Le Muse rimangono ispiratrici dei poeti. I poeti odono il canto divino ma non muoiono, anzi, sopportano il godimento e lo ricantano, mediato, agli uomini. Le Sirene invece, dotate di una voce letale, non narrano più nulla. Consegnate a una storia minore, quella delle fiabe e delle leggende, le Sirene omeriche si trasformano in creature canore che seducono gli uomini per il fascino della loro voce e per la loro bellezza. Una voce femminile che seduce a morte e che non ha parole.
Le Sirene non sono sempre state pesciformi come le conosciamo oggi. Non lo erano le Sirene omeriche e nemmeno quelle delle pitture vascolari greche. I greci infatti immaginavano le Sirene col corpo di uccello e le zampe artigliate appollaiate sugli scogli o sulla riva del mare. Non erano di certo belle ma, come gli uccelli, cantavano con impareggiabile musicalità. Il loro aspetto repellente aveva anzi una funzione precisa nell'epica omerica: il loro fascino, il loro potere di seduzione, derivava solo ed esclusivamente dal loro canto e non dall'aspetto fisico. La ricezione del mito le sposta poi nel mare, nel regno dei pesci, che per antonomasia sono muti. La discesa delle sirene negli abissi e la loro metamorfosi pesciforme coincide con la loro trasformazione in donne bellissime.
Secondo Adriana Cavarero "tale processo corrisponde in modo assai significativo all'affermarsi di uno dei modelli più stereotipici del genere femminile. Si tratta del noto modello per il quale nella sua funzione erotica di seduttrice [...] di oggetto del desiderio dell'uomo, la donna compare innanzitutto come corpo e come voce inarticolata. Deve essere bella, ma non deve parlare. Le è invece concesso emettere piacevoli suoni, vocalizzazioni asemantiche, gemiti di richiamo e di godimento."9
Questo ribadisce che la fonte del godimento è femminile ma consegna la donna alla sfera della phonè che la filosofia a partire da Platone e l'ordine simbolico patriarcale separa dalla sfera più alta del logos , della ragione, della parola. Nella rappresentazione stereotipica la donna è voce, corpo, fisicità sonora; l'uomo è parola, mente, razionalità.
Alla donna, che l'ordine patriarcale ha relegato al silenzio delle parole, rimane il canto. Come insegna il mito delle Sirene, il canto è sentito come naturalmente femminile, tanto quanto la parola è naturalmente maschile. Così la voce e il canto delle donne ha le stesse caratteristiche del canto delle sirene: turba il sistema della ragione e trascina altrove in un luogo che può essere mortale. La voce femminile del canto esprime i ritmi passionali del corpo da cui sgorga.
In modo stereotipato si è dunque affermata la differenziazione sessuale tra vocalico e semantico, modellata sull'opposizione tra corpo e mente, che continua a operare nell'immaginario contemporaneo del melodramma.
Il melodramma offre un campo interessante di indagine per seguire il destino del vocalico legato al principio femminile. Nel melodramma il vocalico "vince" sul semantico. Le parole del libretto sono sopraffatte dal canto, dalla melodia che delizia e commuove. Nell'interpretazione di Adriana Cavarero l'opera è un banco di prova per l'intrecciarsi e il confrontarsi del principio femminile e maschile, e "lascia che il canto prevalga sul significato, la voce sulle parole, il vocalico sul semantico, la musica sulla storia"10.
Questa vittoria della voce sulle parole è data anche dal fatto che nel melodramma le parole, ma anche la pomposità delle scene sono "ridicole". Anzi, l'opera sembra servirsi del ridicolo proprio per amplificare la serietà del messaggio in voce. "Per toccare il cuore vibrante dell'opera, per disarmare il ridicolo di cui si corazza, è necessario che l'occhio del corpo e quello dell'intelletto siano accecati dalla sovranità dell'orecchio"11.
Infatti l'opera non fa ridere, anzi commuove fino alle lacrime. La voce e il canto arrivano a toccare le corde più profonde segnando il trionfo del principio femminile e del potere della voce di suscitare emozioni. L'esempio che Cavarero porta del celebre film Pretty Woman è significativo: la giovane spettatrice incolta portata all'opera si strugge di commozione, conquistata dal bel canto e dalla musica, da un godimento tutto acustico che distrae dai significati.
Per quanto riguarda i significati dell'opera, Cavarero sottolinea un aspetto interessante: le storie contenute nei libretti non contengono solo elementi ridicoli, ma sono profondamente misogine. Le trame si incentrano nella maggior parte dei casi su vicende che coinvolgono donne che devono morire e sono in scena per cantare la loro morte. In genere l'eroina del dramma incarna una donna fuori dagli schemi patriarcali, trasgressiva, innamorata, impazzita... indipendente. Queste donne non addomesticate muoiono cantando e la loro morte è una sorta di purificazione che rimette a posto l'ordine patriarcale infranto.
Secondo uno studio di Catherine Clément12 il libretto, le parole, contano proprio perché la voce ne cancella il significato. E commenta Cavarero: "Senza l'emozione musicale l'opera sarebbe ridicola, non solo per lo stile letterario del libretto, ma anche per la banalità stereotipica della storia misogina che mette in scena. Cantata da una voce che sfida le possibilità umane, questa storia diventa sublime"13. Così, come temeva Platone, il vocalico ha un potere forte sul semantico e nel melodramma lo vince. La voce, il canto, in quanto caratteristiche del principio femminile, sfuggente e corporeo, rimandano alla necessità del controllo patriarcale. Inoltre, nell'opera, cantano anche gli uomini, ma la figura principale è la "prima donna", emblema del canto per eccellenza che testimonia la supremazia della femminilità del vocalico.
IV. Per una filosofia della voce. Conclusioni
Possiamo dire quindi che come le Muse e le Sirene, le cantanti d'opera, voci femminili incarnate, rappresentano la voce tanto quanto, invece, altre figure maschili come il filosofo rappresentano la mente, l'intelletto e il concetto. Del resto questa dicotomia fra la donna come corpo, come voce, l'uomo come mente, come pensiero, è una dicotomia celebre che attraversa tutta la cultura occidentale. Ovviamente la filosofia è figlia del concetto, è figlia del logos che riflette su se stesso e si fa pensiero e come si sa ha per protagonisti soltanto dei soggetti maschili, anzi, soggetti che si definiscono neutri, validi in senso universale. Si capisce dunque perché la corporeità della voce viene trascurata nel suo carattere più intrinseco, quello di essere voce di un corpo singolare. E la singolarità crea problemi alla filosofia, e crea problemi la voce, perché essa è corporea, oscuramente carnale, voluttuosa, passionale, irrazionale. La tradizione metafisica teme la voce perché essa si fa portatrice di un'unicità incarnata e musicalmente relazionale, più della parola che è codice universale di significato. In più la voce, il canto, sono pericolosi per il godimento irrazionale, per le passioni che possono suscitare. Si spiega l'ostilità di Platone per Omero riguardante l'aspetto proprio del canto, che rappresenta un elemento di disordine, di eversione, di destabilizzazione dell'ordine perfetto della società descritta nella "Repubblica".
Adriana Cavarero sostiene che la filosofia nel senso anche più strettamente politico, dovrebbe riappropriarsi del vocalico come elemento di unicità, valorizzare proprio un tipo di relazionalità di individui unici che si manifesta attivamente nella parola. Scrive Cavarero: "la voce non solo annuncia questa relazione, ma la annuncia come materiale, corporea, radicata nella singolarità sempre incarnata di un esistente che convoca l'altro con il respiro ritmico e sonoro, essenzialmente ecolalico, della sua bocca"14.
Se è vero, come sosteneva Aristotele, che l'uomo è un animale con il logos, che ha la parola, e per questo è un animale politico - e questa è una vecchia idea che ha avuto molto successo in tutta la storia della filosofia, ripresa anche nella filosofia contemporanea - è anche vero che la centralità politica della parola può essere pensata come la centralità di uno scambio di parola dove ciò che viene scambiato, ciò che viene comunicato è anche l'unicità della voce di chi parla. Unicità della voce di chi parla che significa naturalmente l'unicità del parlante e quindi apre al pensiero possibile di una importanza dell'unicità come soggettività politica. Perché questo può essere interessante? Perché noi tutti sappiamo che siamo attualmente in un'epoca di transizione verso un nuovo sistema del potere che si chiama in genere globalizzazione nel quale le categorie filosofico-politiche della tradizione filosofica non valgono più, devono essere ripensate. Ora questo significa ovviamente ripensare la soggettività politica. Questo soggetto, modulato sul paradigma del maschio adulto, neutro, razionale, che ha tralasciato il corpo e la voce deve essere pensato diversamente in una nuova figura. Secondo Cavarero, questa soggettività politica da ripensare deve essere una soggettività che ha a che fare non con la neutralità dell'individuo, ma invece con l'unicità di ciascun parlante, partecipante, comunicante. In altri termini la voce come parte corporea, fisica, comunicativa della parola, può aiutarci a pensare di nuovo una centralità della parola che abbia a che fare con l'esporsi e il comunicarsi e lo stare in comunità di soggetti che mettono in gioco la loro unicità nelle sue profonde radici corporee uniche incarnate.
BIBLIOGRAFIA
Italo Calvino, Sotto un sole giaguaro, Mondatori 2001
Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell'espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003
Françoise E. Goddard, L'anima della voce, Urra, Milano 2006
Jean Luc Nancy, All'ascolto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004
Omero, Iliade, Odissea
Platone, Repubblica
Roberto Vecchioni, Poesia e comunicazione. Lectio magistralis tenuta a Bologna l'8 novembre 2006 al convegno nazionale studenti e docenti di Scienze delle comunicazioni.
NOTE
1 Italo Calvino, Sotto un sole giaguaro, Mondatori 2001, pp.51-77
2 Ibid
3 Françoise E. Goddard, L'anima della voce, Urra, Milano 2006, pp.XI-XII
4 Ibid., p.XIII
5 Si definisce ontologia la dottrina dell'Essere.
6 Di questo tema si occupa il saggio di Richard Broxton Onians, Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano 1998
7 Roberto Vecchioni, Poesia e comunicazione. Lectio magistralis tenuta a Bologna l'8 novembre 2006 al convegno nazionale studenti e docenti di Scienze delle comunicazioni.
8 Cfr.Platone, Repubblica.
9 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell'espressione vocale, Milano Feltrinelli, 2003, pag.119
10 Ibid., pag. 136
11 Ibid., pag. 134-135
12 Catherine Clément, L'opera ou la défaite des femmes, Grasset, Paris 1979
13 A. Cavarero, Op. cit., pag.139
14 Ibid., pag.218
(In alto: Ilaria Biagini in assolo)