Apr
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Angelica D'Agliano: Il presepe
Mer, 04/29/2009 - 19:39
Mi sono messa gli scarponi, il piumino e un berretto perché il sole ormai era calato e fuori faceva freddo. Prima di uscire ho dato un'occhiata ai peperoni che parlottavano in padella, per la mia vecchia abitudine di ficcare il naso nei tegami. L'aria era calda e gialla, e profumava di zenzero, ma sapeva anche di quell'odore fresco tipo ortofrutta e di quell'aroma caldo tipo ristorante. In fondo le cucine in questo Paese, pensavo, non sono poi troppo diverse tra loro se più o meno alla stessa ora si popolano tutte dei medesimi profumi, e perfino degli stessi discorsi. Parlo dei discorsi delle tivù.
Così esco, e l'aria tutto d'un colpo si fa azzurro profondo.
Avrei potuto chiedere a mio fratello di accompagnarmi, o, al limite, se lui avesse detto di no, mi sarei anche potuta portare dietro il cane. Il problema è che quella sera non non mi sentivo capace di ascoltare nessuno oltre che me stessa, e non avevo voglia nemmeno del fiato docile della mia Zora che, così acciambellata nella sua cuccia, non avevo il coraggio di svegliare.
Nelle Seimiglia, dove abito io, a differenza di quel che succede nella maggior parte dell'Italia restare fisicamente soli è semplicissimo: basta andare in giro senza essere accompagnati. Nessuno passeggia per strada, né ci sono locali o punti di ritrovo, se vogliamo eccettuare un bar ristorante tenuto da un ometto pugliese sempre imbronciato. Non ci sono nemmeno vicini di casa, perché le case sono rade come una manciata di semi a spaglio sul letame maturo. La terra è rimasta nuda, popolata da olivi, boschi di lecci e castagni e un numero imprecisato di animali selvatici. E pensare che siamo a mezzora di macchina dalla Versilia, uno dei più grandi baracconi turistici del litorale nord della Toscana.
Cammino con le mani in tasca. Il freddo mi fa gocciolare il naso e ho le orecchie piene del rumore che faccio, perché non c'è davvero nient'altro. Le suole che schioccano sull'asfalto, lo struscio impermeabile del giaccone, l'attrito delle cosce di jeans l'una contro l'altra. Il fiato da strada in salita, che ha un suono armonico e una bella forma di tante nuvole azzurrine. Inizio anche a sentire un certo caldo dentro di me, che mi viene in soccorso per combattere il gelo della serata in cui ho deciso di tuffarmi. Si tratta del calore muscolare e sudaticcio che affiora quando si fa movimento fisico e che in quel caso, data la rigidità del clima, restava timidamente localizzato dentro al giaccone (infatti continuavo a avere le gambe, i polpacci e le mani gelati). Ma va bene così. Quando fa freddo tutte le amichevoli manifestazioni di vita che il nostro fisico si degna di offrirci sono le benvenute. Puzzette comprese.
La strada saliva con leggerezza in mezzo ai fantasmi argentati di quello che di giorno, ricordavo, era un folto uliveto. Tra le foglie mi sembrava quasi di distinguere i frutti, ancora da cogliere, come gemme nerissime. Non così invece era il cielo che, anziché ricolmo di notte, sembrava tinto di un'oscurità trasparente. E più che le stelle, per me diventate fruste come i millenni che non vedrò mai in faccia, mi piaceva veder covare a valle il bagliore della piana di Lucca. La nervosità elettrica delle strade, le lucine delle case e delle macchine, le viete quanto oscure affinità coi vasi sanguigni che in quel momento mi pulsavano in tutte le fibre, mi avevano fatto rallentare il passo fino a farmi fermare sul ciglio della strada, proprio di fronte al punto in cui le colline si aprono verso sud.
D'un tratto sentii avvicinarsi un rombo di motore, e un lampo abbagliante per poco non mi fece cadere dall'altra parte del guardrail. Nel giro di pochi secondi un'auto scivolò sulla strada e così com'era venuta si perse di nuovo nel buio.
Nelle Seimiglia le strade si percorrono come se si trattasse di una distanza da estinguere il prima possibile prima di arrivare alla propria destinazione.
Col passare del tempo il senso del pudore della gente, da morale che era, è diventato un qualcosa di geografico. Così se oggi nessuno dei paesani che conosco rabbrividisce al pensiero di avere tutti i propri parenti concentrati da generazioni in un minuscolo pugno di casette su una collina, resta però capace di arrossire, e con che grazia!, quando è costretto ad ammettere di fronte a un milanese o semplicemente un fiorentino di provenire da Patacchi o da Anticiana.
Ripresi la mia marcia mentre pensavo al rally ormai vicino.
Ogni anno, infatti, almeno due volte all'anno, le frazioni collinari nelle quali ho la fortuna di abitare dal lontano 96 vengono magicamente blindate dall'amministrazione comunale e si trasformano in un'immensa pista per le macchinine. Almeno 15 giorni prima del grande evento la gente si prepara: transennano le piane più vicine ai tornanti più pericolosi, montano le tende, tagliano calpestano bruciano tutte le cose che si trovano sul loro cammino. Alcuni si appostano in camper. E poi, direte voi, che fanno? Eh, aspettano. Cosa? Le macchine da rally, che domande. A maggior merito di queste persone bisogna dire che sono capaci di attendere in condizioni davvero proibitive: nelle gelide notti di febbraio o di novembre, sotto l'acqua, a volte perfino sotto la neve loro aspettano.
E alla fine le macchine passano. Dura circa cinque secondi, e siccome le corse si fanno di notte non si vede nemmeno tanto bene. Non appena l'aria si riempie del rombo basso dei motori i corsaioli escono come alcolici paguri dalle tende bivalvi in cui si erano incistati per il gran gelo. Muti, cisposi, e anche un po' addormentati restano in agguato nel buio. Qualcuno che è riuscito a portarsi dietro la ragazza la sveglia con qualche pizzicotto nel sedere. E proprio mentre tizio si sistema l'elastico delle mutande, caio si pulisce il naso con il dito indice e sempronio spinge più che può per liberarsi dietro una siepe, spinosissima, perché da queste parti gli arbusti sono solo sterpi, ecco che finalmente le luci squarciano il buio e arrivano le macchine!
Allora tutte le bocche spinose di barba crescente si aprono in un sol colpo. Senza una forma, senza un motivo l'aria viene pompata da dentro i petti villosi su su verso l'alto. Si ingolfa nella trachea, stacca pezzi di catrame (anni e anni di devozione alla cara vecchia nicotina di stato) e poi sbatte nella pesante, membranosa lassità di un grumo di corde vocali avvezze al tifo di stadio. E intanto che si fa leggera, che diventa un urlo, affiorano anche le bollicine di uno spirito etilico e birraiolo che, pazzerello, indugia fra quei venti baritonali che quasi rischiano di far cappottare le macchinine in corsa, e le accompagna con una specie di borboglio impastato.
Ma esattamente come era successo a me poco prima, come arrivano le auto se ne vanno. E i corsaioli non hanno nemmeno finito di urlare che non c'è già più nulla da vedere.
Si divertono.
Quando non c'è il rally gli uomini del posto hanno escogitato altri passatempi, come la caccia al cinghiale. In questo caso la faccenda è più lunga. Le battute di caccia al cinghiale consistono nel circondare una zona con un nutrito gruppo di uomini armati. Dentro all'area prescelta, che in genere è come minimo una vallata dentro la quale si sospetta che si nascondano i cinghiali, vengono mandati i cani. Due parole sui cani, visto che staranno con noi ancora per poco. Questi animali vivono ogni giorno della loro vita costretti in una gabbia grossa poco più di una scatola da scarpe. Potete immaginare la loro smania una volta tanto che si ritrovano in libertà.
I cani dunque partono, mezzi impazziti, e per prima cosa fanno quello a cui i loro padroni li incitano, e cioè fiutare il selvatico e stanarlo. E in effetti ci riescono. Circondati, braccati, senza via di scampo, i cinghiali escono dalle loro tane nella speranza di trovare una via di fuga. Ma questo li espone soltanto a una persecuzione ancora più accanita. Allora infuria la battaglia. Alcuni selvatici vengono feriti, altri, terrorizzati ma ancora di fatto quasi incolumi, tentano il tutto per tutto e corrono lontano. I cani invece il più delle volte non riescono a fronteggiare le zanne aguzze e la possente muscolatura dei cinghiali: tanti muoiono sul colpo, alcuni impazziscono letteralmente, altri si trascinano mezzi sbudellati ai piedi dei loro padroni, che li cuciono alla bene e meglio oppure li finiscono con un colpo di fucile, a seconda dell'umore del momento.
Ma torniamo ai cinghiali. Superato l'attacco dei cani le povere bestie si trovano di fronte il loro vero nemico. L'area è circondata e per loro non c'è scampo, o quasi. E così inizia la sparatoria che puntualmente stronca decine e decine di capi. Maschi fieri e nel fiore degli anni, femmine gravide, teneri cuccioli: non si salva nessuno.
È anche vero, però, che a volte si verificano dei veri e propri rovesci di fortuna. Questo accade sempre per merito dei nostri etilici amici, che talvolta riescono a mancare il bersaglio o a spararsi perfino fra di loro. Se va proprio bene. Ma la fine è sempre la stessa: si radunano armi, cadaveri e bagagli e si va tutti a mangiare al ristorante!
Ricordo che qualche anno fa, prima che venissero fuori le mie inclinazioni anarchiche, la sinistra locale mi chiese di candidarmi come loro rappresentante. Per dare voce al popolo.
Subito mi venne in mente che a fronte di una popolazione di poche centinaia di individui tutto sommato estremamente poco interessanti, le Seimiglia offrono una nutrita schiera di animali selvatici dei quali sappiamo ancora poco o nulla. E probabilmente se c'è un popolo che avrebbe diritto a una propria voce da queste parti è proprio il popolo degli animali del bosco. Un immenso esercito al servizio dell'ahimsa (non violenza), guidato in marcia composta e ordinata dritto dritto al comune di Camaiore. Signor sindaco, come rappresentante del popolo dei cinghiali la informo che d'ora in avanti avrà inizio una campagna di lotta non violenta nei confronti di tutti i cacciatori che da anni mettono a ferro e fuoco (è il caso di dirlo) la fauna boschiva. Da adesso in poi i nostri satyagrahi (ossia i combattenti seguaci della non violenza) saranno lieti di immolare se stessi pur di toccare i cuori e di convertire la vostra razza di cacciatori camaioresi. Per l'intanto ci accampiamo qui. E così piazza Bernardini di Camaiore, sede del palazzo comunale si trasforma nel giro di poche ore in un gioioso pollaio di istrici, upupe, cinghiali, fringuelli, tordi e perfino qualche cane pentito. Ma anche dei drammi privati di pantegane impallinate, galline sprimacciate e spiumacciate, indi bollite in enormi pentoloni natalizi, gattini soffocati o impiccati o mutilati, cavallette infilzate vittime di coxotomizzazione artigianale, rondini dai nidi distrutti, topolini tagliolizzati, rospacci miti e sbudellati in mezzo alla strada, formiche pallide nebulizzate all'insetticida, volpi imbalsamate, talpe murate vive nelle loro gallerie, merli tristemente in gabbia da tutta una vita, chiocciole ustionate dal sale e poi mangiate, uccellini presi al laccio e morti lentamente di fame e di sete, conigli passati a fil di spada per il loro pellicciotto, maiali dagli zamponi dolorosamente farciti, galletti aizzati uno contro l'altro, vermi tagliuzzati a cuor leggero, vespe schiacciate, api dagli alveari distrutti e deprivati del miele , della propoli, della pregiata cera che tanto ci piace maneggiare, pesci pescati, zecche senza cani da succhiare, pulci scappate, pulcini cresciuti a forza e usati come richiamo nei capanni di caccia, pulcini mai nati che pigolano dal profondo di stupide frittate, pulcini bevuti ancora vivi e pulsanti come ovetti freschi del contadino, tori siringati coi sedativi, mucche dalle mammelle svuotate per le nostre colazioni, vitelli da latte che non hanno mai bevuto latte, agnelli nati per pasqua impastati e fritti, bisce schiacciate col manico del badile, polletti dalle cervella schizzate all'aria a bastonate, capponi dai coglioni sfuggiti, maialetti dai canini strappati via a forza per evitare che diventino pericolosi, gatti divenuti chissà come sofferenti sagome per il tiro al bersaglio di qualche imbecille nostro fratello.
Ma poi ho pensato a un popolo di cinghiali che si espone volutamente al fuoco dei villici, mentre io guido il loro massacro non violento da una prigione comunale, digiunante, triste e speranzosa, e mi sono resa conto che i miei compaesani giudicano troppo buone le grigliate di selvaggina per lasciarsi intenerire da un animale che offre se stesso in pegno per la salvezza del propria razza.
Così riprendo a camminare. Stavolta strascico il passo, cerco di andare più lentamente e di cogliere qualcuno di quei particolari che in genere di giorno mi piace fotografare o disegnare. Mi piacciono le cose che si descrivono con difficoltà. Che so, un'ombra proiettata sull'asfalto, la disposizione dell'azzurro e del grigio in un cielo nuvoloso, tutte le sottigliezze della luce in tralice. Quando trovo il soggetto giusto e cerco di fotografarlo, puntualmente mi accorgo che nella foto il particolare che mi interessava non ha alcuna preponderanza sul resto dell'immagine e dunque passa inosservato. Ancora meglio se mi metto a disegnare, dato che non sono capace di tracciare una linea storta su un foglio bianco senza sporcarmi tutte le dita, si può immaginare quanta parte del gioco di toni e delle magie dei chiaroscuri riesce alla fine a arrivare sul foglio. Diciamo che mi diverto.
Non appena la porta di casa si è chiusa dietro di me mi sono accorta subito che la casa si era allontanata dietro la mia schiena e si era fatta lontana, lontana come una zattera che galleggiasse incerta alla deriva. È il gioco del buio naturale contro la luce artificiale. L'oscurità liquida di questi posti allontana le cose e le trasporta fuori dalla mente molto in fretta. Così il freddo. Ora casa mia davvero non c'era più, non c'era più quasi come se non ci fosse mai stata. Avevo superato il primo tratto di oliveto e mi stavo addentrando poco a poco in un'area più nera, tutta chiome di leccio color dell'inchiostro e spruzzi di luna qua e là, fra le foglie. Mi sentivo addosso un soffio gelido che all'inizio pensai fosse anche bagnato. E invece era secchissimo, solo che era anche molto molto freddo, e quasi colorato. In effetti avevo tutto intorno come una trasparenza di un tono bianco sottile, che si posava sugli steli raccolti nel silenzio, sulle cortecce mute e i sassi abbandonati. I contorni delle cose erano diventati tutto a un tratto un confine immaginario, un qualcosa su cui non potevo più contare molto. Vedevo i rari aghi di pino prolungarsi con movimenti gentili molto più in là di quanto non sarebbe stato consentito dalle loro fibre delicate, notai un ondeggiare leggero dei fusti, ma anche il fremere delle rocce, che parevano quasi ribollire per il gran freddo. Tutto prendeva vita chimerica nell'incertezza della mia vista diuturna. Stavo piantata ben in mezzo alla strada (così mi pareva), per evitare che quella danza sottile non fosse tutta una manovra del bosco per buttarmi in un qualche dirupo che magari si era aperto proprio ai miei piedi senza che io me ne fossi resa conto. Spesso è proprio in questo modo che le driadi e le oreadi si divertono a ghermire i loro montanari e i loro gitanti: li confondono nella solitudine, gli parlano un po', e poi lasciano che il resto lo facciano da soli. A volte invece prendono un bolo maligno e lo posano con dita sottili in cesti di vimini colmi di porcini. Altre volte passano sugli occhi certi succhi di erbe che non fanno più vedere la via in mezzo alle felci. Oppure carezzano coi seni di latte le ginocchia degli scalatori, che irrimediabilmente cedono ai burroni. Si ammazzano che è una meraviglia. Ma io sono una donna, a me certe cose succedono con più difficoltà.
Canto, cammino, chiudo gli occhi. E piano piano la luce riaffiora fuori dalla macchia. La strada disegna una curva stretta, subito fuori dall'ansa ci sono le pietre di un lavatoio antico, riempito goccia a goccia dall'acqua di un canale argentato che zampilla molto più in alto. Negli sterpi vedo la tazza di un cesso abbandonato ancora lucido di porcellana lunare, e la tremula carcassa di una cucina di ghisa, che ancora mi sorrideva sdentata in mezzo alle croste rugginose. Tra le mascelle teneva una ninfa dai capelli sciolti e le carni ormai quasi del tutto trasparenti. Poverina, non si muoveva più: si vedeva che aveva lottato per liberare i piedini dagli artigli della Zoppas e che, forse, creatura senza speranza quale era, aveva già pianto tutte le sue lacrime. Il popolo selenita.
Sento arrivare un'altra macchina, come un razzo che viaggia da una galassia verso altre nebulose ancora ignote. Stavolta mi spavento, e mi riparo gli occhi dagli abbaglianti nervosi. Ma è questione di poco, perché il rombo passa e va, e mi lascia a guardare la scia al neon che nelle mie fibre ottiche offese si è trasformata in una specie di incerto alone verdastro rivolto alla strada gocciolante eppure secchissima che continua.
Ora la via si apre a costeggiare un fianco collinoso tutto rocce bianche e lunghi, lunghissimi cigli erbosi. Alla mia sinistra c'è il cadavere di un'enorme madre quercia abbattuta dal vento. Sento che quando la brezza le passa vicino le foglie schioccano e sfrigolano. Più in là c'è la piccola frazione di Castello raccolta nel riposo su una piccola altura. Vedo le casette che si fanno coraggio fra di loro nella notte. I buchi nei muri, siano essi porte o finestre, mandano tutti una sola unica luce gialla. Dai camini alita fumo bianco o grigio o azzurro e anche nella notte mi sembra che il paese di Castello conservi una specie di recinto di plausibilità tutto intorno a sé. I colori si mantengono coscienti e nitidi, così come i contorni delle cose. È una specie di piccolo presepe gonfio di tanti piccoli paesani invisibili. E fate bene ad attendere, piccoli, pii paesanelli: il giorno non può tardare e domani prenderete le macchina e ve ne andrete il più lontano possibile da qui, fino a che non sarà calata di nuovo la sera.
(Foto: Sembra Betlemme, in realtà è un alpeggio vicino al parco dell'Orecchiella, in Garfagnana)