Una serata sul noir: Massimo Lo Giudice colpisce ancora

 
 
È domenica e sono in macchina che vado a Prato col mio amico. Sabato gli ho fatto una testa così con le mie rimostranze su quello che ho sentito alla presentazione dell’ultimo libro di De Cataldo. Mentre guido, pregustando la mostra su Bruno Munari, accendo l’autoradio e che trovo? Un intervista su Radio Due a De Cataldo e Lucarelli. E inveisco. Il mio amico mi fa: “Ma non è che a te ‘sto corso di scrittura creativa ti incarognisce un po’?”. “Ma non è che invece il destino è crudele” rispondo io “e me ne sciroppa due in una volta?”. Venerdì sera, dunque, sono andato alla presentazione col mal di testa – comincio a sospettare che il mio registro polemico sia solo una questione di cervicale o cali depressivi o tutti e due, a seconda. D’altronde avevo fatto pulizie in casa per tutto il pomeriggio e c’avevo il Lisoform pure sotto le ascelle. Arrivo in ritardo ma profumato. E trovo tutta una cosa in tiro al complesso di San Micheletto. Le hostess in tiro, Sebastiano in tiro, col cartellino dell’Upim ancora penzolante da dietro il colletto della giacca finto frescolana a ventinove euro e novanta (cito il proprietario, non racconto mica frottole, io…), la sala abbastanza affollata. Del resto, dico io, si tratta pur sempre dell’autore di Romanzo criminale, mica zizzole. Sebastiano mi incrocia e la butta lì: “Mi raccomando, eh! Mi raccomando.” Dal che potrei intendere mille cose, fra le quali: • Miraccomandononfareilrompipalle (si vede che ormai mi conosce); • Miraccomandofaiilrompipalle (appunto); • Miraccomandofaiunadelletuedomandeintelligenti (eh si, mi conosce decisamente); • miraccomandocontosudite, e via dicendo. Mi siedo in prima fila per tenere fede alla mia fama di secchione della scuola – ormai non ne esco più, tanto vale recitare bene la parte che è pure divertente. Comincia la fase istituzionale della presentazione. Il direttore della scuola ringrazia a destra e ringrazia a manca, soffermandosi con eleganza fascinosa sulle facce di chi tira fuori i quattrini (con l’abito dell’Upim non lo ferma più nessuno!), e comincia a parlare non del libro a cui la serata è dedicata (qualcosa su un padre, non ricordo) ma di Romanzo criminale. La dico in soldoni: gli americani, vivono la loro storia mentre la storia si fa e sentono l’esigenza di raccontarla. Noi italiani, no. Questo è il succo dell’esordio di Seby. E mi sembra che abbia ragione. Romanzo criminale è un tentativo di raccontare la nostra storia recente attraverso un genere. La questione, però, ribatte l’ospite, non è il genere, il cosiddetto noir, che sarebbe, secondo lui, solo un’altra forzatura definitoria (e lo dice schifato, come se lui con quel genere non c’entrasse proprio un bel niente) ma il fatto che si sceglie di raccontare la nostra storia attraverso la narrazione di crimini, perché di crimini è fatta sostanzialmente la nostra storia degli ultimi trent’anni. O giù di lì. Tra l’altro, il fenomeno non sarebbe solo italiano, per cui, a meno di non voler ipotizzare un complotto internazionale tra scrittori, la conclusione è che qualche cosa nel mondo non va. Sono strabiliato dalla scoperta… Qualcosa nel mondo non va… tutti possiamo rendercene conto, anche chi sfortunatamente non scrive noir, perché in Italia e in altri paesi si conta un certo numero di omicidi, faide tra mafie, complotti politici e attentati. Attonito, solo ora comprendo dove scavare per trovare le radici del male. La letteratura che non si occupa della storia non è seria. Questo esce dalla bocca del nostro scrittore noir, che ci tiene a non essere definito tale, perché detesta gli steccati e le definizioni. Non ama una certa letteratura “esangue” (cito testualmente) e affermando tale disprezzo, alza uno steccato grosso quanto la muraglia cinese. La letteratura che si limita a raccontare biografie o inquietudini personali prive di contestualizzazione storica, sarebbe pura dabbenaggine (il termine è mio). Se racconto del mio gatto sarei un “esangue” vigliacco, insomma. Vorrei fare qui un elenco di parole, per come mi vengono, senza concatenazione logica. È un esperimento. Un po’ noioso, forse. Dunque, vediamo… precarietà; disoccupazione; inflazione; depressione; disturbi alimentari; tossicodipendenza; inquietudine; disperazione; nichilismo; sperequazione; schizofrenia; obesità; desertificazione; rifiuti… Giuro che li ho lasciati così come mi sono venuti, soprattutto obesità, che è quella che mi terrorizza di più. Non è un’istigazione al suicidio. E avrei potuto continuare all’infinito. Sono tutti concetti assolutamente concreti che si riferiscono a fatti che accadono quotidianamente in molte parti del pianeta e che non hanno niente a che vedere con i crimini e i misteri raccontati da De Cataldo. Non necessariamente. Cogne, Perugia, Garlasco, Erba, tutti posti divertenti citati dallo scrittore, sono solo punte di iceberg. Niente di più. Io dico che pongono domande sulle origini del male tanto quanto può farlo la malattia di una persona cara. E poi c’è tutto il resto, dico io. La storia, la nostra storia non è solo tangentopoli e vallettopoli. C’è anche il Monopoli e Paperopoli, cazzo! Voglio dire, c’è anche il buono, accidenti! E se così non fosse, se la mia fosse solo una forma regressiva di ridicola ingenuità, non è scritto in nessun manuale del piccolo scrittore che la letteratura debba occuparsi solo di Di Pietro e di Santi Licheri. A un certo punto vedo che Sebastiano tossisce e diventa paonazzo. Lo fa quando si annoia. Non dovrei scriverlo qui, ma è così, è una mia opinione, ma è così, ammettiamolo. Lui è libero di negare. Cerca di dare la parola a un magistrato presente come relatore, Fabio Origlio, ma che ha una faccia davvero simpatica. Questi ringrazia il Mondadori per aver portato un po’ d’aria nuova nella moribonda vita culturale lucchese, definendolo “medico pietoso”. Ora, io faccio quanto è nelle mie possibilità (non è vero) per evitare di rendere il Mondadori un personaggio caricaturale dei mie resoconti. Ma quando non è lui a prestare il fianco, cosa che avviene piuttosto spesso, ci pensano gli altri a istigarmi. “Medico pietoso”, dice il simpatico signore, e ha anche ragione, perché se non arrivava Sebastiano a Lucca un paio di anni fa, stavamo ancora tutti a passeggiare sulle mura. Però, perché me lo figuro subito col camice e il fonendoscopio nelle orecchie che fa le avance alle infermiere? (Chiedo perdono per la digressione, ma le parti sul direttore della scuola sono ormai un obbligo morale, per me, e integrano ineludibilmente il racconto). E poi il “medico pietoso” ogni tanto è costretto a propinarci medicine amare come quella di stasera, che proprio non mi scende per l’esofago. Origlio fa un excursus sulla propria figura professionale fino all’uscita esplosiva di questa sui mass media. Poi, cortese e insinuante come piace a me, riferisce che secondo lui ci sono ben tre motivi per cui un magistrato non dovrebbe scrivere dell’oggetto del proprio lavoro, cosa che invece De Cataldo, giudice di corte di qualche cosa, fa tutti i santi giorni. Non li elenco (accenno solo a una cosetta che si chiama deontologia) ma registro qui per l’eventuale lettore che sono d’accordo con il magistrato simpatico. Pienamente. De Cataldo risponde, io non ci capisco un’acca, ma mi pare che abbia parlato di tutt’altro. Proprio di tutt’altro, non c’è dubbio. Dopo verrò a sapere che non è stata solo una mia impressione. Sebastiano poi esprime l’opinione in base alla quale il genere aiuta il lettore a “riconoscere” ciò che legge ed eventualmente a riconoscervisi. Non so perché, ma l’ospite registra la cosa come un insulto e risponde che il noir vende meno di Moccia. E che c’entra poi? Non ti hanno mica detto che il noir è merda! E ovviamente per lui Moccia lo è, anche se non lo dice esplicitamente. E non in virtù di una valutazione su Moccia in sé e per sé (che magari altissima letteratura non è), ma per differenza, non so se mi spiego, per differenza con quello che scrive lui, insomma. Un faro di umiltà. E ancora elusione, quintali di elusione. E ancora non è solo una mia impressione. Intervengo, dicendo che ho contezza (ho detto proprio così, contezza) di quanto il crimine sia una parte importante della nostra storia, a causa del mio lavoro (faccio l’assistente sociale in carcere). Tuttavia, mi chiedo, e chiedo a lui, se in libreria vi sia un’alternativa tra Moccia (che, come dice Seby, poveraccio, fa solo il suo) e De Cataldo, aggiungendo ironicamente che non è che non mi senta attratto dall’idea di comprare un suo libro (di De Cataldo, dico, perché di Moccia lo comprerei, se non altro per spregio). È che appunto credo che ci sia altro. Lui mi fa un elenco di scrittori che hanno tutti raccontato storie anche personali, ma sempre nel contesto di problematiche connesse alla nostra storia attuale. Ad esempio, una scrittrice di cui non ricordo il nome ha scritto la storia di una donna che vuole abortire, comincia a frequentare le altre pazienti dell’ospedale e queste appartengono alla classe proletaria. Questa storia sarebbe una delle alternative che cerco. Dunque, se la storia riguardasse solo la protagonista e basta, senza implicazioni sociologiche e storiche, senza proletari di mezzo, insomma, avrei il dovere di trovarla meno interessante, anzi del tutto priva di attrattiva. Come è ovvio, non sono assolutamente d’accordo. Forse io la troverei più interessante, anche qui per dispetto. E poi perché, chi ha letto altri miei resoconti lo sa, odio le dicotomie, in questo caso quella ancora una volta assolutamente fittizia tra personale e sociale, tra individuo e storia, tra introspezione e cronaca. Dicotomia sottesa, mi sembra, alla produzione noir di De Cataldo. E sì, perché, diciamolo, De Cataldo scrive semplicemente noir, un genere letterario nobilissimo, ma appunto, genere. E lui dice di no. Mi sembra che accidentalmente o volutamente, non importa, ci sia dentro anche un po’ di sano senso della storia, altro che, ma che questo senso sia dentro un genere, non c’è niente da fare. E mi sembra che non gli piaccia sentircisi inscatolato dentro, non capisco perché. Una pittrice amica di uno scrittore che ho conosciuto di recente, una volta gli disse: “Non mi piacciono quelli che ripetono il giochetto”, riferendosi naturalmente all’arte. E devo dire la verità, non piacciono neanche a me. Forse, sotto sotto, non piacciono neppure a De Cataldo, perciò quando qualcuno insinua che lui è uno scrittore di genere – dunque uno che “ripete il giochetto” guadagnandoci in fama e denaro – lui elude. E durante questo noiosissimo Venerdì sera, lui ha eluso moltissimo. A tonnellate. Arriviamo al Centro di Arte Contemporanea di Prato. È Domenica e c’è il sole. Mi aspetta Munari. Mi immergo tra i suoi libri illeggibili e tutte le altre espressioni della sua fantasia irrefrenabile, come se nuotassi dentro una piscina di acqua tiepida. Lui, i giochetti non li ripete, mi dico… No, i giochetti, lui, non li ripete…
Massimo Lo Giudice

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