• Anonimo (non verificato) on Sab, 07/26/2008 - 00:00

    Gli aeroplani a Brescia

    Siamo arrivati. Davanti all'aerodromo c’è ancora un grande spiazzo con casette di legno dall'aspetto dubbio, per le quali ci saremmo aspettati insegne diverse da: Garage, Gran Buffet Internazionale e così via. Mendicanti mostruosi ingrassati sui loro carretti ci tagliano la stra­da tendendo le braccia, nella fretta si è tentati di scaval­carli con un salto. Sorpassiamo molta gente, e altra gen­te ci sorpassa. Guardiamo in aria, poiché è dell'aria che qui si tratta. Grazie al cielo, non vola ancora nessuno. Non ci scansiamo dalla strada, eppure non veniamo in­vestiti. In mezzo, dietro e incontro alle migliaia di vetture saltella la cavalleria italiana. L'ordine e gli inciderli sembrano egualmente impossibili. .
    Una volta a Brescia a tarda sera volevamo arrivare in fretta in una certa via, che a nostro avviso era piuttosto lontana. Un vetturino chiede tre lire, noi ne offriamo due. cocchiere rinuncia al viaggio e per pura gentilezza ci descrive la distanza addirittura spaventosa di quella via. Noi cominciamo a vergognarci della nostra offerta. D'accordo, tre lire. Saliamo, tre giri di carrozza per brevi strade, siamo là dove volevamo andare. Otto, più energico di noialtri due, dichiara che naturalmente non gli viene neppure in mente di pagare tre lire per quel tragitto durato un minuto. Una lira è più che abbastanza. Ecco qua una lira. È già notte, il viottolo è deserto, il vetturino è robusto. Si infervora subito, come se la lite durasse già da un'ora: Cosa? – Quella è frode. – Ma cosa crediamo. – Si sono pattuite tre lire, bisogna pagare tre lire, tre lire oppure staremo a vedere. Otto: "II tariffario o le guardie!"Tariffario? Non c'è tariffario – E dove sono i tariffari per le vetture! – Era un accordo per una corsa notturna, ma se gli diamo due lire, ci lascia andare. Otto con tono da far paura: "II tariffario o le guardie!". Ancora grida e ricerche, poi viene tirato fuori un tariffario sul quale non si vede altro che sporcizia. Ci accordiamo quindi per 1 lira e 50 e il vetturino prosegue per la stret­ta via, nella quale non può girare, non solo furente, ma anche, come mi pare di capire, malinconico. Perché il nostro contegno non è stato purtroppo quello giusto; in Italia non ci si può comportare così, altrove può andar bene, non qui. Solo, chi ci pensa, nella fretta? Non ci si può far nulla, in una piccola breve settimana aviatoria non si o diventare italiani.
    Ma il rimorso non deve guastarci la gioia sul campo d'aviazione, non ne risulterebbe che rimorso rinnovato, e noi, più che andare, saltiamo nell'aerodromo, in un entusiasmo di tutte le articolazioni che ci afferra a volte d improvviso, l'uno dopo l'altro, sotto questo sole.
    Passiamo davanti agli hangar che se ne stanno lì con i tendoni tirati, come palcoscenici chiusi di commedianti girovaghi. Sui frontoni stanno i nomi degli aviatori, i cui apparecchi essi nascondono, e sopra la bandiera della loro patria. Leggiamo i nomi Cobianchi, Cagno, Calderara, Rougier, Curtiss, Moncher (un trentino che porta i colori italiani, ha più fiducia in quelli che non nei nostri), Anzani, club degli aviatori romani. E Blériot? chiediamo. Blériot, al quale abbiamo pensato tutto il tempo, dov'è Blériot?
    Sullo spiazzo recintato davanti al suo hangar, Rougier, un ometto dal naso vistoso, va su e giù in maniche di camicia. È concitatamente occupato in un'attività non subito comprensibile, agita le braccia, muove frenetico le mani, si tasta tutto il corpo camminando, manda i suoi operai dietro il tendone dell'hangar, li richiama indietro, entra lui stesso, spingendo tutti dinanzi a sé, mentre di lato sua moglie, in un aderente vestito bianco, un piccolo cappello nero schiacciato a forza fra i capelli, le gambe delicatamente divaricale nella gonna corta, fissa il vuoto della calura, una donna d'affari con tutte le preoccupazioni degli affari raccolte sul piccolo capo.
    Davanti all'hangar attiguo siede, tutto solo, Curtiss. Attraverso le tende un poco scostate si vede il suo apparecchio; è più grande di quanto non si racconti. Quando passiamo, Curtiss tiene il New Yorker Herald sollevato di­nanzi a sé e legge una riga in alto su una pagina; mezz'o­ra dopo passiamo di nuovo e lui tiene quella pagina già nel mezzo; dopo un'altra mezz'ora ha finito la pagina e ne comincia una nuova. Evidentemente oggi non vuole volare.
    Ci voltiamo e vediamo l'immenso campo. È cosi grande che ogni cosa che vi si trovi sembra abbandonata: il traguardo accanto a noi, l'albero dei segnali in lontanan­za, la catapulta di lancio da qualche parte a destra, un'automobile del comitato, che con la bandierina gialla tesa nel vento descrive un arco per il campo, si ferma nella sua stessa polvere e riparte.
    Un deserto artificiale è stato costruito qui, in una terra quasi tropicale, e l'alta aristocrazia italiana, splenden­ti signore parigine e tutte le altre migliaia di persone so­no raccolte qui, per scrutare in questo deserto assolato, per ore e ore, fra le palpebre strette a fessura. Non c’è nulla su questo spiazzo di ciò che di solito, su altri campi sportivi, porta un po' di distrazione. Mancano le graziose sequenze di ostacoli delle corse dei cavalli, i bianchi disegni dei campi da tennis, il fresco tappeto erboso dei campi di calcio, le pietrose salite e discese delle piste automobilistiche e ciclistiche. Solo due o tre volte nel corso del pomeriggio un corteo di colorati cavalieri trotta in diagonale per la pianura. I piedi dei cavalli sono invisibili nella polvere, la luce uniforme del sole non cambia fin verso le cinque del pomeriggio. E affinché nulla distragga dalla vista di questa distesa, manca anche la musica, solo i fischi della folla nei posti popolari cercano di soddisfare le esigenze dell’orecchio e dell’impazienza. Vista dalle costose tribune alle nostre spalle, quella gente si fonde senz’altro, senza distinzione, con la distesa vuota.
    In un punto della ringhiera di legno sono raccolte diverse persone. "Com'è piccolo!" esclama un gruppo fran­cese come gemendo. Che succede? Ci facciamo largo. Ma là sul campo, vicinissimo, con un vero colore giallastro, c’è un piccolo aeroplano che viene preparato per il volo. Ora vediamo anche l'hangar di Blériot, e, accanto, quello del suo allievo Leblanc, costruiti sul campo stesso. Ap­poggiato a una delle ali dell'apparecchio sta, subito rico­nosciuto, Blériot, e, con la testa immobile sul collo, sorveglia i suoi meccanici che lavorano al motore.
    Un operaio afferra una delle pale dell'elica per av­viarla, le dà uno strattone, qualcosa si scuote, si sente un suono simile al respiro di un uomo massiccio che dorme; ma l'elica non si muove oltre. Si fa un altro tentativo, si fanno dieci tentativi, a volte l'elica s'arresta subito, a vol­te si concede per un paio di giri. È un problema di motore. Cominciano altri lavori, gli spettatori si stancano più dei diretti interessati. Il motore viene oliato da tutte le parti; viti nascoste vengono allentate e poi strette; un uomo corre nell'hangar a prendere un pezzo di ricambio; non va bene neanche quello; torna indietro di corsa e, ac­coccolato sul pavimento dell'hangar, lo aggiusta con un martello tenendolo fra le gambe. Blériot cede il sedile a un meccanico, il meccanico a Leblanc. Gli uomini, ora l’uno ora l'altro, danno strattoni all'elica. Ma il motore è inflessibile, come uno scolaro cui sempre si da una mano, cui tutta la classe suggerisce, ma no, non ce la fa, si incaglia sempre, si incaglia sempre nello stesso punto, si ferma definitivamente. Per un poco Blériot rimane a sedere immobile sul suo sedile; i suoi sei collaboratori gli sono intorno, senza muoversi; tutti sembrano sognare.
    Gli spettatori possono tirare il fiato e guardarsi attorno. Passa la giovane signora Blériol dal viso materno, seguita da due bambini. Quando suo marito non può volare è contrariata, e quando vola ha paura; e oltre tutto il suo bel vestito è un po' troppo pesante per questa temperatura.
    Di nuovo l'elica viene avviata, forse meglio di prima, o forse no; il motore si accende con un gran rombo, come se fosse un altro; quattro uomini tengono di dietro l'ap­parecchio, e in mezzo all’aria immobile tutt'intorno la corrente prodotta dall'elica vibrante si insinua a colpi nei loro camici da lavoro. Non si sente una parola, solo il frastuono dell'elica sembra impartire ordini, otto mani lasciano l'apparecchio, che corre a lungo sulle zolle, co­me una figura maldestra sul parquet.
    Vengono fatti molti di questi tentativi e tutti termina­no senza che lo si voglia. Ciascuno fa balzare in piedi il pubblico, lo fa salire sulle sedie di paglia, sulle quali con le braccia spalancate ci si tiene in equilibrio e al contem­po si possono manifestare speranza, paura e gioia. Ma nelle pause la nobiltà italiana passa lungo le tribune. Ci si saluta, ci si inchina, ci si riconosce, ci sono abbracci, si salgono e si scendono le scale verso le tribune. Ci si indi­ca l'un altro la principessa Letizia Savoia Bonaparte, la principessa Borghese, una signora anziana dal viso color dell'uva giallo scura, la contessa Morosini. Marcello Bor­ghese è con tutte le signore e con nessuna, da lontano sembra avere un viso comprensibile, ma da vicino le suo guance si chiudono sopra gli angoli della bocca con tratti del tutto estranei. Gabriele d'Annunzio, piccolo e debole, danza apparentemente timido davanti al conte Oldofredi, uno dei membri più autorevoli del comitato. Dalla tribuna, oltre il parapetto, sporge il viso massiccio di Puccini, con un naso che si potrebbe dire da bevitore.
    Ma queste persone le si scorge solo se le si cerca, altri­menti si vedono ovunque, a offuscare tutto il resto, lo si­gnore in lungo della moda attuale. Preferiscono cammi­nare anziché sedere, nei loro vestiti non si sta comodi a sedere. Tutti i volti, velati alla maniera asiatica, vengono portati in una leggera penombra. Il vestito lento e molle sul busto fa sì che l'intera figura, da dietro, appaia titubante; si ha una sensazione ambigua, come inquieta, quando dame simili appaiono titubanti! Il corsetto è bas­so, ormai quasi impossibile ad afferrarsi; la vita sembra più larga del solito, perché tutto è cosi sottile; queste donne vogliono essere abbracciate più in basso.
    Era solo l'apparecchio di Leblanc, quello che è stato mostrato finora. Ma ora si arriva all'apparecchio con cui Blériot ha sorvolato la Manica; nessuno l'ha detto, tutti lo sanno. Una lunga pausa e poi Blériot è in aria, si vede il suo busto eretto sopra le ali, le sue gambe sono infilate dentro in profondità, sono una parte del meccanismo. Il sole è sceso e, filtrando da sotto il baldacchino delle tribune, illumina le ali sospese. Tutti, in completo abbandono, guardano su verso di lui, in nessun cuore c'è posto per qualcun altro. Vola per un breve giro, e poi compare quasi in verticale sopra di noi. E tutti guardano allungando il collo il monoplano che oscilla, viene ripreso da Blériot e addirittura sale. Ma cosa accade? Quassù a venti metri sopra la terra c'è un uomo imprigionato in un telaio di legno e si difende da un pericolo invisibile volontariamente sfidato. Ma noi stiamo di sotto, respinti all’indietro e inconsistenti, e guardiamo quest'uomo.
    Tutto finisce bene. L'albero dei segnali indica al con­tempo che il vento si è fatto più favorevole e che Curtiss volerà per il gran premio di Brescia. Dunque sì? Non si fa neanche in tempo a parlarne, che già ronza il motore di Curtiss, non si fa in tempo a guardare, che già vola via, vola sopra la distesa che gli si ingrandisce dinanzi, vola verso i boschi lontani, che solo ora sembrano salire. A lungo va il suo volo sopra quei boschi, lui scompare, noi guardiamo i boschi, non lui. Da dietro case. Dio sa dove, spunta fuori alla stessa altezza di prima, si avventa contro di noi; se sale, si vedono le superfici inferiori del biplano inclinarsi scure, se scende, le superfici superiori splendono nel sole. Passa attorno all'albero dei segnali e gira, indifferente al fragore dei saluti, diritto nella direzione da cui è venuto, per ridiventare in fretta piccolo e solitario. Compie cinque di questi giri, vola 50 chilometri in 49' 24" e vince così il gran premio di Brescia, 30.000 lire. È una prova perfetta, ma le prove perfette non possono essere apprezzate: di prove perfette, alla fi­ne, si ritiene capace chiunque, per prove perfette non sembra occorrere coraggio. E mentre Curtiss lavora da solo là sui boschi, mentre sua moglie, che tutti conoscono, sta in ansia per lui, la folla lo ha quasi dimenticato. Da ogni parte ci si lamenta soltanto che Calderara non volerà (il suo apparecchio s'è rotto), che Rougier traffica già da due giorni intorno al suo velivolo Voisin senza lasciarlo andare, che Zodiac, il dirigibile italiano, non è ancora arrivato. Sull'incidente di Calderara circolano voci così lusinghiere, che vien da credere che l'amore della nazione lo solleverebbe in aria con sicurezza tanto maggiore che non il suo velivolo Wright.
    Curtiss non ha ancora terminato il suo volo, che già in tre hangar i motori s'accendono come per entusiasmo. Il vento e la polvere si scontrano provenendo da direzioni opposte. Due occhi non bastano. Ci si gira sulla sedia, si barcolla, ci si afferra a qualcuno, ci si scusa, qualcuno barcolla, ci trascina con sé, ci ringrazia. Cala la sera dell'autunno italiano, non tutto, sul campo, si distingue con chiarezza.
    Proprio quando Curtiss passa dopo il suo volo vittorioso, e si toglie il berretto senza guardare e sorridendo appena, Blériot inizia un piccolo volo circolare, di cui tutti già prima lo ritenevano capace! Non si sa se si applaude Curtiss oppure Blérìot oppure già Rougier, il cui, grande e pesante apparecchio ora si lancia in aria. Rougier siede alle sue leve come un gentiluomo allo scrittoio, al quale si può giungere salendo, alle sue spalle, una pic­cola scala. Sale in piccoli cerchi, sorpassa Blériot, fa di lui uno spettatore e non finisce di salire.
    Se vogliamo ancora trovare una vettura, è tempo di andare; molta gente già si accalca passandoci dinanzi. Si sa, questo volo è soltanto un esperimento, e siccome son già quasi le sette di sera, non viene più registrato uffi­cialmente. Nel cortile dell'aerodromo gli autisti e gli in­servienti sono in piedi sui sedili e indicano Rougier, da­vanti all'aerodromo i cocchieri sono in piedi sulle molte vetture sparse e indicano Rougier; tre treni pieni fino al­l'inverosimile non si muovono a causa di Rougier. Per fortuna troviamo una vettura, il cocchiere si accoccola ai nostri piedi (la cassetta non c'è), e partiamo, ridiventati infine esistenze autonome. Max fa l’osservazione giustis­sima che anche a Praga si potrebbe e si dovrebbe orga­nizzare qualcosa di simile. Non dovrebbe essere per for­za una gara, dice, sebbene anche di questo varrebbe la pena, ma a invitare un aviatore non dovrebbero esserci difficoltà e nessuno degli organizzatori avrebbe di che pentirsene. La cosa sarebbe anzi davvero semplice; ades­so Wright vola a Berlino, prossimamente Blériot volerà a Vienna, Latham a Berlino. Basterebbe dunque convin­cerli a una piccola deviazione. Noi due non rispondiamo, innanzi tutto perché siamo stanchi, e poi perché non avremmo comunque niente da obiettare. La strada svol­ta e Rougier compare così in alto da far credere che ben presto la sua posizione sarà misurabile solo con le stelle
    che fra un istante si mostreranno in cielo, che già si colo­ra di scuro. Non smettiamo di voltarci indietro; proprio in quel momento Rougier sale ancora, ma la nostra stra­da, definitivamente, si addentra nella campagna.

    [trad. di Andreina Lavagetto]

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