Oct
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E' nato l'Orco
Ven, 10/24/2008 - 08:25
E' nato il Libratto di Alessandro Trasciatti: La via dell'orco. Leggi un capitolo:
III
Capitolo della valigia, del sonno e dello spillo
Dunque, sono ricorso alla valigia, la mia bella valigia multistrato. Nonostante gli spostamenti e le turbolenze mi ha sempre fatto compagnia. Mi piace pensarla come un vessillo di me stesso, di ciò che ero e forse sono ancora. Ma è anche una cantina che nasconde vini invecchiati, salumi prelibati, conserve di frutta e di verdure, salamoie saporite, formaggi aromatizzati con erbe, peperoncini, olive. Mi era venuta una fame enorme, incontrollabile, dolorosa. Sentivo lo stomaco muoversi come una belva in cerca di cibo. Ormai da un po’ di tempo mi trovo a dover duellare con lui per ridurlo al silenzio e farlo stare buono. I medici dicono che non ho nulla, che l’organismo funziona perfettamente. E’ rincuorante, certo, ma pure mi sgomenta perché mi sento impotente di fronte alla bestia che mi porto in pancia, prepotente, tirannica, rumorosa e bizzosa finché non è nutrita come il Minotauro. Sono le delusioni, dicono gli psicologi, le frustrazioni. Sì, quello lo so. E’ anche per questo che sono venuto nella mia città natale, per scoprire qualcosa che possa aiutarmi a riempire il vuoto che mi porto dentro. Ma non è stato così.
Così ho tolto la sicura al livello dedicato alle leccornie e ho iniziato ad estrarre una ad una tutte quelle squisitezze gastronomiche. Mi sarebbe piaciuto poter condividere quel tesoro, molto più di una razione di scorta. Ma ero solo come sempre e allora ho pensato che, perlomeno, mi sarei trattato bene. Sono scivolati dalle mie mani cotechini, zamponi, lenticchie, tartufi, pecorini freschi e stagionati, salami, prosciutti enormi che ho appeso all’attaccapanni a formare una pendula teoria succulenta, come quelle che si vedono nelle pizzicherie più opulente. In quel momento la mia camera si è trasformata in uno spreco voluttuoso di proteine, ma avrei voluto che la terra intera fosse uno sterminato paese di cuccagna, un labirinto di delizie commestibili in cui aggirarsi con la speranza di non trovare più l'uscita ed attaccarsi con le mani e coi denti alle mortadelle che pendono dal soffitto, alle processioni di salsicce, e inciampare in signori accoccolati su forme di grana o bimbetti mezzo affogati in barili di canditi.
Ho apparecchiato un piccolo tavolo sotto la finestra con una bella tovaglia ricamata da mia nonna, estratta anche quella dalla valigia, e ho dato inizio al rituale, per me così intimo, del pasto. E’ stata quasi una regressione al seno, al latte materno e la presenza di estranei mi avrebbe disturbato, avrebbe reso più difficoltosa la masticazione, il boccone sarebbe andato giù a fatica. Solo qualcuno di molto amico non sarebbe stato di disturbo. Mi ricordo che spesso in compagnia di sconosciuti ho mangiato poco e ho lasciato nel piatto pietanze che da solo, o in famiglia, avrei divorato con immenso piacere. Adesso, finalmente, potevo ritrovare qualche attimo di ingenuo godimento, impiastricciarmi la bocca e le mani di marmellata e sbrodolarmi sulla camicia. Mi sono abbuffato senza riguardo per le buone maniere, perché ero di nuovo, anche se per poco, un primitivo e ho cercato di approfittare il più possibile di questo stato di grazia.
Poi mi sono buttato sul letto come un orso satollo e mi sono addormento all’istante. Russavo come pochi sanno russare, frastagliando il buio della camera con grugniti e sibili, liberandomi dai venti interni con formidabili sfiati e tutta la stanza è stata presa in un vortice portentoso. Niente poteva resistere al mio impeto, tutto tremava: il letto, i vetri della finestra, il lampadario. Il corpo si gonfiava e si ritraeva, riempiva lo spazio a ritmo di tamburo. Sognavo di aver mangiato il mondo come una torta fatta e fette, un popone, un’anguria spaccata col coltello e divorata succhiando polpa, acqua e semi, sgocciolando tutto intorno. E’ un gioco da bambini grassi mangiare il mondo, un divertimento da orchi, e qualcuno si è avvicinato alla mia porta, ha poggiato l’orecchio sul legno per capire cosa stava succedendo dentro. Se fossero riusciti a vincere lo spavento che li legava fuori e fossero entrati, avrebbero fatto festa anche loro e avrebbero volteggiato in aria portati dalle correnti che uscivano da me e dai miei possenti vibrati di baritono. Anche se dormivo mi sono accorto che origliavano, il mio è un sonno che vede nel buio, non mi sfugge niente quando dormo, mentre da sveglio il mondo mi sembra avvolto in un bozzolo opaco che confonde i contorni delle cose. E allora li ho visti di là dalla porta: il facchino gallonato, il portiere diffidente, la ragazza del treno e poi un mucchio di altra gente che non avevo mai visto, ospiti dell’albergo fino ad allora nascosti, altri camerieri, il proprietario. Stavano tutti lì, inorecchiti e sgomenti, si guardavano l’un l’altro senza fiatare, avevano paura di me. Non sapevano che quando dormo sono ancora più innocuo di quando veglio, perché anche se vedo tutto e so tutto quello che succede intorno, il sonno mi immobilizza, sono suo prigioniero e non faccio male a una mosca. Volevo dir loro di entrare, che non c’era nulla da temere e che si lasciassero prendere dal vortice dei venti della stanza e svolazzassero pure come su una giostra. Perché questo sono quando dormo, un orco da giostra, un gigante in catene che russa e sfiata e divertirebbe anche i bambini se li facessero avvicinare e non li tenessero a distanza, come invece hanno sempre fatto tutti.
Quando nacque mia nipote, per esempio, io la guardavo fisso perché era già bellissima e mia madre (sua nonna), che la teneva in braccio, mi disse di smettere di guardarla in quel modo perché le davo il malocchio. Ecco cosa pensava mia madre di suo figlio, uno che dà il malocchio e rende nervosi i bimbi, li avvezza alla sfortuna, così che verranno su nevrotici e disgraziati, sempre insoddisfatti come lui, a torcersi le mani dietro un tavolo grigio da eterni impiegati infelici. Non so se questo mia madre lo pensasse davvero quando mi allontanò da mia nipote, ma io pensai che lo pensava, e che non scherzasse quando disse del malocchio. Che poi, a pensarci bene, se sono finito a fare l’impiegato triste, qualche colpa ce l’ha pure mia madre che mi ha inculcato fin da giovane l’idea del posto fisso, dello stipendio sicuro e statale. Dovevo capirlo che lei me lo diceva per placare la sua ansia, cos’altro poteva fare? Avrei dovuto rassicurarla, dirle che non avevo paura del mondo, che a me sarebbe piaciuto fare il trapezista, l’astronauta, l’esploratore, che il mondo lo avrei attraversato a piedi e il mare a nuoto. Ma non glielo dissi perché a me faceva paura anche la piscina comunale. Così un giorno è venuta fuori pure la storia che davo il malocchio. Ma invece sono solo un orco mangione e impotente, nulla di più, niente di nefasto.
Comunque stavano tutti di là dalla porta e non osavano entrare. Io ho continuato a vederli nel sonno per parecchio tempo. Poi lentamente sono entrato in una fase di sonno più leggero, il sonno che evapora e porta al risveglio. Anche il russio si è fatto più lieve, ho cominciato a fare dei sibili più aggraziati, con la bocca socchiusa, e anche i venti interni si sono via via placati. Nell’ultima lucidità onirica che mi rimaneva ho visto i miei ascoltatori andarsene alla spicciolata, sempre un po’ guardinghi, ma convinti che ormai il peggio fosse passato. Sono ritornati tutti nelle loro stanze d’albergo o alle loro mansioni. Anche la ragazza è sparita, l’ho vista scendere le scale, attraversare la hall e uscire dalla porta, andarsene per strada. Era mattina, mi sono svegliato. Mi sono alzato in fretta e furia perché dovevo raggiungerla prima di perdere del tutto il contatto. Non ho fatto né doccia né colazione, mi sono vestito con la roba della sera prima e mi sono gettato a capofitto giù per le scale e fuori nella strada. Ho preso a destra, dalla parte in cui la via si infilava più tortuosa nella città, perché io non sono per le cose semplici. La ragazza del treno non poteva essere molto lontana, di sicuro si era fermata in qualche bar a fare colazione. E un bar lo vedevo laggiù in fondo, con una tenda da sole che si sporgeva in fuori, anche se di sole lì ce n’era poco. Mi sono affrettato, ma ho avuto l’impressione che anche se correvo non mi avvicinavo più di tanto e poi quella che vedevo non era neanche una tenda da sole, mi sembrava un telone di autocarro. E infatti si muoveva, doveva essere proprio un camion, e mi portava via la ragazza. Allora ho cominciato proprio a correre, ho superato diversi incroci, l’autocarro era sempre più piccolo in lontananza e aveva imboccato un vialone che non pensavo neanche potesse esistere lì in centro. Ma forse il fatto era che in centro non c’ero già più, avevo corso come un matto e cominciava già la periferia di questa città maligna e confusa. Di colpo mi sono accorto di essere bagnato fradicio di sudore, avevo il cuore in gola, respiravo con la bocca, mi sembrava di scoppiare. Il camion ormai non lo riprendevo più, aveva fatto una curva ed era sparito dietro una fila di capannoni. Lì dove ero io c’erano dei condomini, qualche casa vecchia, un pezzetto di campo pieno di erbacce. Non so dove ero finito, ma era impossibile andare avanti, non ce la facevo più, dovevo riprendere fiato e tornare indietro. Mi sembrava di essere in un incubo, ma ero sveglio, molto meglio quando dormo nel mio bel sonno di orco felice e vedo tutto quello che succede intorno. Potessi dormirei sempre, lì nel sonno ci sto bene davvero, non mi occupo di nulla, guardo attraverso i muri, mi diverto a fare i venti e i grugniti, quella sì che è vita, mica questa veglia di cane sempre bastonato.
Mi sono riposato qualche minuto seduto su un muretto. Colavo di sudore e la ragazza mi era sfuggita. Passavano le macchine in quello stradone e mi sembrava di essere in un paese dell’Est prima della caduta del muro di Berlino: macchine tutte uguali e vecchiotte, asfalto pieno di buche, ogni tanto un camion stracarico di mobili o di sacchi di cemento. E io stavo lì e guardavo, mi sono anche steso un po’ sul muretto perché ero stanco davvero. Pensavo che se quella era la città dove ero nato non mi ricordavo davvero niente e sembrava che il tempo fosse andato indietro invece che avanti. Comunque ho dormito un po’, poi mi faceva male la schiena e mi sono svegliato. Allora ho cominciato a tornare verso l’albergo, però quello che credevo un tragitto semplicissimo si è ingarbugliato. Camminavo con piglio sicuro, ma che mi stessi avvicinando all’albergo era tutto da dimostrare. E infatti, dopo un paio di svolte a destra e una a sinistra, non sapevo più dove andare. Mi dicevo che la città non era grande e che dovevo per forza arrivare a destinazione, ma ben presto tutte le strade mi sembrarono uguali. Ero tornato nel centro storico, mi ci aggiravo a caso. Quando mi sono deciso a chiedere informazioni in un bar mi sono dovuto trattenere perché non ricordavo il nome dell’albergo, anzi, mi sono reso conto di non averlo mai saputo e neanche l’indirizzo. Ho cominciato ad annaspare, sentivo le case farsi più vicine, curvarsi fino a toccarsi con le gronde dei tetti, alitarmi addosso odori di cucina dalle finestre aperte e quando incrociavo qualcuno abbassavo lo sguardo vergognoso, quasi mi aggirassi furtivo in un luogo dove non dovevo essere.
Il tempo passava, il cielo si scuriva, le luci erano tutte accese ed io ero preso in una rete di pensieri storti, demoralizzato e confuso. Dopo innumerevoli giri e rigiri, mi sembrò di essere finalmente nella via dell’albergo, benché tutto fosse reso più incerto dalle ombre e le abitazioni avessero mutato volto con le finestre accese, le voci che venivano da dentro, i suoni dei televisori. E poi non era facile trovare un albergo di lusso dietro una porta coi vetri smerigliati da ambulatorio, nascosta oltretutto nell’androne di un portone senza insegna e di cui non avevo tenuto in mente il numero civico. Mi sembrava che tutte le porte della strada fossero identiche, tutte passibili di celare un albergo, tutte al contrario ugualmente capaci di immettere all’interno di una civile abitazione. Più mi sforzavo di rammentare qualche particolare che mi orientasse nella ricerca, più perdevo i punti di riferimento e presto dubitai anche di quale fosse il lato giusto della strada.
Allora cominciai a infilarmi nei portoni a casaccio, a tastare alla cieca negli anditi oscuri, aguzzavo la vista come un gatto per scorgere una porta modesta con i vetri smerigliati. Poi, finalmente, sprofondato com’ero nell’ombra di un androne, scorsi davvero una porta che lasciava trapelare un lucore velato. Toccando con le mani tutto quello che potevo andai in quella direzione e appoggiai entrambe le palme sul vetro della porta. Sentivo bene la superficie compatta e leggermente ruvida. La porta era quella, senza dubbio. Infatti la spinsi e mi si spalancò davanti la hall con la moquette rossa. Era ora, non ce la facevo più, ero stravolto e sospirai di sollievo. Ero trafelato e il portiere mi guardò più sprezzante che mai, chissà cos’ero ai suoi occhi, un mentecatto, un buzzurro panciuto piovuto dalla campagna che veniva a sporcargli l’albergo. Mi feci dare la chiave e andai su per le scale strascicando i piedi. Finalmente fui in camera. L’abat-jour era accesa e sul comodino era stato posto addirittura un cestino con dei cioccolatini. Il letto era stato aperto e un angolo del lenzuolo rovesciato, pronto per la notte. Non mi aspettavo un servizio in camera del genere in un hotel così impoverito, e soprattutto non credevo che potessero avere per me quelle attenzioni, vista la giornata precedente. Ma evidentemente era il retaggio di un passato glorioso, di un’era di lusso.
Ed ecco che, proprio mentre facevo queste considerazioni, mi sembrò che sul mio necessaire, che era lì dove lo avevo lasciato, nel bagno sopra una poltroncina rivestita di spugna, brillasse qualcosa di fine ed aguzzo, qualcosa di metallico. Mi avvicinai e vidi una grossa spilla da sartoria conficcata proprio sul dorso dell’involucro. Presi in mano la borsetta per osservare meglio quella piccola fiocina, ma non la volevo toccare, prima dovevo capire che cosa era successo. Quella spilla non era certo mia. La cosa più semplice da pensare era una distrazione di colei o colui che aveva compiuto il servizio in camera. Magari la spilla serviva per infilzare la fascetta di carta di un asciugamano pulito, era stata tolta e appuntata sul mio necessaire con l’intenzione di riprenderla appena conclusa l’operazione del cambio, e poi dimenticata lì. Ma io – l’ho già detto - non sono abituato a prendere in considerazione le ipotesi più semplici. Per me fu subito chiaro che ad entrare in camera era stato il cameriere-facchino stanco e sudato, era stato lui a fare il servizio, ma sentendosi ancora offeso per la mancia secondo lui indecente, si era preso la libertà di usare un oggetto di mia proprietà per farmi uno spregio e mandarmi un segnale preciso: «sei un pezzente tale che il tuo necessaire lo uso come puntaspilli». Ne ero certo, come se avesse lasciato la firma sul muro con la vernice. Mi sembrò pure di sentire il suo odoraccio aleggiare nella stanza. Lo vidi caracollare sghembo fra il letto ed il bagno e fui invaso da una indignazione mai sentita, una voglia di mettermi a gridare, di scovare quel brutto ceffo e bastonarlo di santa ragione, e poi trascinarlo per un orecchio al cospetto del suo padrone e raccontargli tutta la storia di questo vile marrano, e poi ancora godere nel vederlo licenziare seduta stante e sbattere sul marciapiede come un ladro colto in flagrante. Ma ero troppo stanco per le questioni di principio e le rivendicazioni. Eppure quello spillo mi sconcertava e pure mi atterriva. Per un attimo immaginai quel bestione di facchino gallonato intento a lanciarmi maledizioni mentre conficca lo spillo nel mio necessaire. Come potevo lasciar perdere? Cercai di scacciare quell’immagine, ma un attimo dopo mi si ripresentò alla mente, e poi ancora e ancora, a intervalli regolari pulsandomi nelle tempie. Sudavo. Ero trafelato per la camminata e angosciato per lo spillo. Lo spillo. Lo spillo…
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non mi hai detto nulla!!!
sei un surmolotto gigante e subdolo!!!
naedo
perché mi hai nascosto la gravidanza e il parto???
roberto vannini
sei un orcone sotterfugioso!
nedo vannini orchiatra
Ho partorito di nascosto (ma neanche tanto) altrimenti me lo avresti impedito. Dovevo farlo, dovevo fare questo parto di prova. Poi chissà, può darsi che debba tirare via tutto, ma era un passaggio necessario, non potevo mandare allo sbaraglio i miei libratti senza capitano. Come surmolotto capo dovevo gettarmi nella mischia. Ora si vedrà. Avrai tutto il tempo di leggere il frutto di questa prima gestazione.
Surmolatti
allora ho iniziato a leggere il libro... sono circa a metà... devo dire che sono molto colpita.... mi è piaciuto leggere come si possano attorcigliare potenziali stemmi araldici con i contenuti di addomi gorgoglianti e pieni di personalità. l'originalità è piena. unico alter ego che mi è venuto in mente grazie alla mia ostinata e quasi patologica tendenza nel cercare omologhi è stato con il john fante di "chiedi alla polvere"..... quella certa familiarità con una leggera e raffinata sventura me l'ha ricordato.
simpaticamente... :-)
e poi mi domando: ma che vita hai avuto caro il mio trasciatti???? mi è sembrato di entrare nelle pieghe e nei rivolti di questo simpatico personaggio... oserei dire quasi insospettabile se osservato nella placida serenità delle sere che ho passato insieme a te.... mi piace!!
mi chiedo cosa vedrò dietro lo sguardo sornione che avevo già notato in tempi non sospetti , quando ti rivedrò dopo la lettura del libro??? !! ;-)
direi che la rotondità fisica di cui narri nelle gesta orchesche del tuo alterego protagonista diventa ora soprattutto una rotondità di conoscenza.... nel cerchio, nella sfera, nel tondo tutto entra... e forse ora ti sei "espanso" verso chi, come me, era all'ignaro di tutto...
comunque complimenti... direi che il libro, conformemente al protagonista, me lo sto mangiando!!!! .-)
Cara Monica,
tutti questi complimenti mi scompendiano. Non so mica se ce la farò a rispondere debitamente. In effetti ho cercato di fare un libro tondo, dove fare entrare tutto, dalla mia vita stentativa alle mie passioncelle orco-orchestrali. Che vita ho fatto? Mah, diciamo che ho dormito molto e un po' continuo a dormire anche ora. Però ogni tanto mi sveglio, ho dei sussulti. E poi sì, sono un dissimulatore, un nasconditivo. Però ora ho cominciato ad espormi. Non credo che tornerò indietro. Spero solo non mi colpiscano troppe frecce. Nel caso, mangerò anche quelle.
Saluti e ringraziamenti
Orcatto
Dolce Monica che non conosco,
non stupirti del Trasciatti: non lo fa neppure lui.
Io ho finito l'Orco l'altro ieri. Mi è piaciuto. Juxta modum, ma decisamete una lettura positiva. Molto positivistica, intendendo col termine la vololntà di plasmare la realtà in tutta una serie di stomaci cinesi (non solo scatole...) attraverso le illusioni della costruzione letteraria.
Ma secondo me sbagli a cercare nella via dell'orco la vita del Direttore. Certo, c'è la sua esperienza, la sua vita.
Ma a me, sinceramente, non interessa. La storia è bella se riesce a parlare a me e di me, oltre che del resto. Quello che caratterizza una buona opera, diceva ieri l'orco sorseggiando il the, è la sua lieve distanza dalla contingenza.
E la prima contingenza è proprio l'autore. Per quanto orco sia (lui, e pure io).
Libetico Orchivoro