Presentazione de Il Ministro della Muraglia di Giuseppe O. Longo
Trieste, 10 marzo 2011, Libreria Lovat
Intervento di Roberto Curci
Caro Roberto,
il 10 marzo presenterò ‘Il Ministro della Muraglia’ alla libreria Lovat di Trieste.
Mi piacerebbe molto che accanto a me ci fossi tu, a dire due parole d’introduzione
e a farmi qualche domanda. Non ti preoccupare, reggerei io il tutto il peso della
manifestazione. Sei libero? Mi dici di sì?
Un caro saluto
Pino O.
Voglio sperare che Pino O., cioè Giuseppe O. Longo, non si adonti – forte com’è di un proverbiale senso dell’umorismo – per essermi permesso di citare alla lettera il testo della mail con cui, un mese fa, mi ha precettato, o meglio incastrato, per questa occasione.
“Sei libero? Mi dici di sì?”. Manzonianamente parlando, lo sventurato rispose. Rispose di sì. Ed eccoci qua… Con la speranza che anche al resto del messaggio di posta elettronica Longo voglia tener fede: cioè che mi consenta di dire due parole di introduzione e di porgli qualche domanda, e di lasciare che sia poi lui – grazie anche alla sua robusta vocazione teatral-attoriale – a reggere (sic) tutto il peso della manifestazione. Il che, tra l’altro, mi incuriosisce molto…
Comunque, dicevo, eccoci qui. E non per la prima volta, dal momento che posso tranquillamente fregiarmi del titolo di Antico Ammiratore di Giuseppe O. Longo, e che, pertanto, già in qualche altra occasione mi è capitato di fargli da spalla, o da sparring-partner.
Il motivo è molto semplice: Longo mi piace, ne ho grande stima e grande ammirazione; mi piacciono i libri di Longo, mi piace la sua scrittura, raffinata e spesso elitaria, dal lessico talvolta raro e desueto; e mi piace anche la sua esigenza di pubblicazione, di divulgazione. Longo, per capirci, non è di quelli che tengono nel cassetto preziosi (o presunti preziosi) inediti, alla ricerca dell’editore perfetto, fatto su misura per le loro attitudini. Longo ama vedere i propri romanzi (non tanti) e i propri racconti (tanti invece) stampati nero su bianco, e poco importa se l’editore è un editore di nicchia, purché sia serio, affidabile, garantisca l’uscita di un prodotto concettualmente e graficamente irreprensibile. Il che – caso fortunato o infallibile sesto senso di Longo – regolarmente accade.
Dopo Campanotto, Studio Tesi, Hefti, Mobydick, dopo il prestigioso transito nella collana dei Coralli di Einaudi con il romanzo “L’acrobata” (per parlare solo della produzione letteraria di Longo, e non di quella saggistica, legata prevalentemente ai suoi interessi nel campo dell’intelligenza artificiale: lo diciamo sommessamente, ma con molta reverenza: Longo è professore emerito di Teoria dell’Informazione all’Università di Trieste), dopo le esperienze – dicevo – con i suddetti editori, ora Longo approda a una giovane casa editrice di Lucca, la Trasciatti, che propone tra le altre cose una collana di libri illustrati, nel senso che – nel caso di Longo – a ognuno dei dieci racconti di questo volume intitolato “Il ministro della Muraglia”, sono premessi dei disegni di sapore xilografico, dei bianchi-e-neri di rara finezza e icasticità firmati da Loretta Schievano.
Longo dunque colpisce ancora, e ancora una volta non fallisce il bersaglio. Un giorno, scherzando ma non tanto, si è autodefinito vittima di un inguaribile graforrea, ovvero di una coazione (non so se nevrotica o meno, ma non direi) alla scrittura. Francamente ignoro quanti racconti Longo sia riuscito a dare alle stampe in una trentina d’anni: tantissimi, comunque, dai tempi de “Il fuoco completo” (vai poi a sapere quanti ce ne sono ancora a scalpitare negli odiati cassetti, o quanti sono in progress, nella mente o nelle mani dell’autore).
Va detto, anche se inevitabilmente sembrerà bassa piaggeria, che non mi è mai capitato, avendo letto praticamente TUTTO di Longo, di imbattermi in qualcosa che suonasse gratuito, forzato, banale, ripetitivo, scontato, e men che meno che suonasse sciatto o scritto male (o meno bene): per Longo scrivere male (o meno bene) è impresa assolutamente superiore alle sue forze, c’è in lui questa capacità ammirevole e invidiabile, di trasfondere quella che è la forza del pensiero, della fantasia, dell’invenzione, in forza di scrittura (e, dicevo prima e qui confermo, in raffinatezza di scrittura, in una scrittura ricercata, capziosa, involuta, ma per questo ancora più affascinante… Con ripescaggi saporiti e anche, oserei dire, un tantino compiaciuti di termini obsoleti: il parletico, per esempio, che ritorna in un paio di racconti di questo “Ministro della Muraglia”. Chi lo sa che cos’è il parletico, alzi la mano….
Ma bisogna circoscrivere Giuseppe O. Longo, la sua cifra espressiva, il suo personalissimo timbro. E allora, in maniera molto grossolana, si può dire che le sue opere appartengono in parte a una dimensione terrestre, geograficamente assai precisa e connotata (il mondo della Mitteleuropa, da Trieste su su fino ai paesi baltici, passando obbligatoriamente per Vienna e Budapest) e in parte a una dimensione ultra o extraterrestre, che sconfina in quella che si definisce (o si definiva) fantascienza: altri spazi, altri mondi, altre creature, altri mostri. E, in maniera altrettanto grossolana, si può dire che “Il ministro della Muraglia” appartiene sostanzialmente al secondo filone narrativo: “ambientati ora in un passato indefinibile, ora in un futuro catastrofico – è scritto, una volta tanto in maniera assolutamente corretta, sulla controcopertina – questi racconti ci parlano di creature subumane assemblate al servizio dell’uomo, di costruzioni inanimate che prendono oscuramente vita, di luoghi paurosi e inaccessibili”. E si fa riferimento, altrettanto correttamente, a un brulicare di rimandi letterari, sotto il comun denominatore del Mistero: la Mitteleuropa, il Golem, Kafka, la fantasia orrifica di Lovecraft.
Al rimando a Kafka, alla sua scrittura densa, avvincente, ipnotica, tante pagine di Longo – pagine ugualmente dense e avvincenti, senza un “a capo”, talvolta senza segni d’interpunzione – ci avevano quasi abituato. Ci sorprende qui il richiamo a Lovecraft, peraltro del tutto pertinente: poiché a chi se non a Lovecraft possono far pensare le creature ibride e mostruose emerse “Dall’abisso” nel racconto proprio così intitolato, e l’uso di termini che fanno parte integrante del lessico lovecraftiano, l’orrore anzitutto, oppure aggettivi quali abominevole, osceno, immondo, innominabile.
Mi sto soffermando, come capite, solo su una scheggia della dimensione fantastica che sta alla radice dell’opera di Longo. Ma forse già si intuisce come Longo sia, per così dire, uno scrittore al nero, non nel senso oggi tanto invalso di noir, ma in quello di evocatore di atmosfere cupe, vischiose, stagnanti, sia che parlino di questo o di altri mondi, uno scrittore – oserei dire – incline all’horror, un horror interiore però, un malessere o una malattia dell’anima, non certo lo splatter al quale ci ha abituato certa narrativa di serie B e C. (Per cui forse quello che ancora manca alla produzione di Longo è una vera e propria immersione nella ghost story, nella storia di fantasmi propriamente detta: anche se fantasmatici sono un po’ tutti i personaggi – quelli dai contorni netti e taglienti, e quelli più incerti e sfumati – che popolano le sue storie).
E’ anche per questo, per questa sua vocazione visionaria eppure spesso di una abbagliante concretezza, che – come dicevo – mi piacciono Longo e la sua scrittura. E mi piace la sua puntigliosità, la ricerca minuziosa con cui ad esempio sceglie i titoli dei suoi libri (bellissimi: Di alcune orme sopra la neve, La gerarchia di Ackermann, Congetture sull’inferno, La camera d’ascolto, fino al penultimo: Squilli di fanfara lontana), e poi le locations delle sue storie (sintomo anche di un certo cosmopolitismo, che deriva dalla sua stessa attività di studioso e di accademico, insomma di uomo di mondo), e poi i nomi, i nomi dei personaggi, sempre evocativi, molto spesso esotici e spesso di estrazione germanica (ricordo per inciso il titolo di un altro suo libro “Lezioni di lingua tedesca”…).
Nomi femminili quali Leni, Helmi, Dita, Veronika (col kappa, beninteso), o personaggi maschili che di cognome fanno Huber, Prohaska, Eminescu, Samuelson. Questo solo per citare alcuni protagonisti o comparse del suo libro più fortunato, “L’acrobata”, di cui sono riuscito a ripescare una mia recensione apparsa sul Piccolo nel 1994. Scusate l’autocitazione, ma ci ritrovo parole che mi sembrano ancor oggi valide per tutta l’opera di Longo: una ricerca, una ricerca esistenziale e anche un percorso iniziatico, in cui ciò che l’io narrante insegue è in realtà se stesso: un se stesso in rapporto a un mondo altamente imperfetto, fatto di malattia e di dolore, di rimorso e di espiazione, rozza “prova generale” del mondo vero e della vera vita, situati forse (utopia? fantascienza?) “oltre la nostra opaca realtà”.
Ecco, penso che questa sia una chiave importante per penetrare nel complesso mondo espressivo di Longo: “andare oltre la nostra opaca realtà” qualunque sia il registro usato, il realistico o l’onirico, il grottesco, il gotico o il fantascientifico, qualunque sia il calco stilistico utilizzato, i citati Kafka e Lovecraft, ma anche e soprattutto il prediletto Thomas Bernhard, cui lo ha talora apparentato quel particolare linguaggio che definirei narrativo continuo, senza pause e senza respiro, sinuoso e avvolgente, che rappresentano il timbro inconfondibile dello scrittore austriaco.
Ma mi accorgo di non aver accennato se non di sfuggita al nuovo libro per cui ci ritroviamo qui oggi (dieci racconti brevi o brevissimi), e anche a un concetto che credo sia forse più rilevante di tutte le cose dette finora. Un concetto che mi pare strettamente connesso – forse mi sbaglio, poi Longo magari mi smentirà – sia a quest’ultima silloge di racconti sia all’opera complessiva di Longo. E’ il concetto di ambiguità, tema enorme su cui per esempio, anni fa, è uscito un doppio tomo (Moretti e Vitali editori) a cura proprio di Giuseppe O. Longo e di Claudio Magris.
Scriveva tra l’altro Longo nell’introduzione che “nel linguaggio scientifico si cerca di rimuovere al massimo l’ambiguità: poiché si privilegia la comunicazione rispetto all’espressione, si vuole trasmettere in modo univoco il contenuto”, al contrario, nel linguaggio narrativo e ancora di più in quello della poesia, “l’ambiguità ha una sua funzione importante poiché serve a moltiplicare i significati, le metafore, le allusioni implicite ed esplicite. Qui l’ambiguità contribuisce al valore estetico dell’opera, consentendone una pluralità di interpretazioni, nessuna delle quali, a priori, può arrogarsi il titolo di unica corretta”.
Beh, credo sia esattamente quanto accade nell’opera letteraria di Longo, e quindi anche nel “Ministro della Muraglia”, e credo dunque che ambiguità sia un’altra parola-chiave per accostare la sua opera. Nel racconto che intitola il libro, ad esempio, la Muraglia, questa possente e immensa costruzione, esiste o non esiste? Esistono i mostri e l’oceano contro i quali essa dovrebbe fare da contrafforte? Mistero non chiarito.
E poi chi è, cos’è, com’è fatto, con che cosa è fatto, l’essere, la creatura, il mostro che insegue Giulia e infierisce su di lei nel racconto “Aviatore al tramonto”? Mistero, ognuno cercherà e si darà la sua risposta.
E, ancora: per chi arde nella notte la luce del faro che instancabilmente viene accesa da un guardiano di nome Barnaba (un nome, fra parentesi, schiettamente kafkiano)? “Sì, disse Barnaba, la speranza generata dal faro è infinita. Ma non è per noi”. A ciascuno il compito di congetturare su per chi sia, quella speranza.
Sì, forse possiamo dire che tutti i racconti di Longo lasciano con il fiato sospeso, con un enigma sospeso, con un’inquietudine non placata, o semplicemente con una curiosità (o molte curiosità) non chiarite. Ambiguità, appunto. Mistero, suspense. Rovello. Ricerca, “oltre la nostra opaca realtà”.
(In alto: Dall’abisso, disegno di Loretta Schievano per la copertina de Il Ministro della Muraglia)