Ecco, immaginate una strada dritta, senza alberi, né lunga né corta, con le facciate che si guardano alla stessa altezza, delimitando una striscia di cielo marino, solo apparentemente tranquillo.
Il sole è tiepido, un marzo già bullo, con odori e vampe dai finestrini che sanno di giugno: carichi e screziati come in una piena maturità.
Una giornata femminile, di donne sui terrazzi, accanto alla pianta del basilico, al bucato che schiocca di luce.
Saliamo le scale e la morbidezza di fuori s’innerva di un fondo di cucina.
Il fondo perenne che abita le scale dei condomini. È curioso, perché l’odore dei condomini, sottilmente diverso l’uno dall’altro, resta uguale, giorno per giorno, nonostante mutino i cibi e i sapori e nonostante le finestre socchiuse.
Quello è l’aroma, il dentro della scatola, del guscio, la pelle che avvolge pudicamente l’uovo.
Non solo un odore, per quanto complesso, ma la piega che l’aria di un posto conserva come in cima alla pagina di un libro. Il segno non cancellabile che, forse, introduce l’aspetto corporeo del tempo.
Il tempo scorre, ma anche s’installa, c’è, con l’evidenza di un muro, con la scrittura di una vita.
Così, sospinti nell’odore delle scale, entriamo dove madre e figlia aspettano la visita del dottore e il settimanale prelievo di sangue.
Improvvisamente, il tempo si agghinda dei suoi tabernacoli, quasi inciampa, mostrando la sua corrente infinita, il caos.
Nel salotto, la televisione trasmette il film Casablanca, così bianca e irreale come il colore del destino che dispiega più di un inizio e di una fine.
Tra le foto di famiglia colpisce quella del signore con l’impermeabile e il cappello sulle ventitré proprio accanto alla serie completa, insistente, di un giovanotto che, invece, mostra nuda la sua verità, glabro il petto e le guance.
Intanto, la cannula che consente alla madre di respirare è quasi una vena trasparente che scandisce i secondi, altra ghirlanda del tempo su cui posare gli occhi e immediatamente scostarli.
Ma il vero spettacolo è il soggiorno stesso, la camera grande in cui fluisce e rifluisce l’apparente sospensione della malattia, il corredo di attenzioni, di dubbi, di novità che fanno le giornate diverse, eppure precise.
Un calendario tridimensionale, un palco dove l’ordine delle entrate è stato compresso.
La parete di destra si allunga verso il centro della stanza, sotto il minuscolo peso di centinaia e centinaia di bomboniere, mentre quella di sinistra ondeggia per lo scalpiccio di altrettante bamboline.
Su alcuni ripiani, si mescolano addirittura e tendendo l’orecchio si potrebbe percepire il sottofondo di confetti succhiati e triturati, le cortesie, i saluti.
Nomi di luogo, di città e Paesi sorgono e tramontano in un modesto, ma convinto atlante di paesaggi e viaggi meravigliosi.
Viaggi che si consumano nel computo delle sillabe, evocative in sé e per sempre di una felicità che ha scambiato lo spazio per il tempo.
Oppure che ha riconosciuto al tempo la sua totale signoria sullo spazio: quando le barche si specchiavano nel porto, quando fiorivano gli aranci, quando correva il treno, quando la mamma potrà uscire di nuovo…
Non sono, quindi, gli oggetti a restringere semplicemente la stanza, riducendola ad una parentesi di pochi passi, a farne una vetrina opaca, ma è il tempo stesso, ossigeno d’ogni carezza e fuga.
E così per celia o autentica disperazione, la visita, che annota un leggero miglioramento, si conclude all’ingresso, di fronte ad una di quelle fontane perenni con la spina inserita, poggiate su una colonna tortile.
Oggetti che, una volta avviati, nella loro totale falsità e inutilità sembrano catturare meglio lo scorrere obliquo del tempo, dando nell’illusione dello zampillio la prova di una qualche ragione o autorità che governi i rapporti di causa ed effetto, d’amore e perdita.
(In alto: foto Trasciatti,scattata a Scansano, provincia di Grosseto)