29 – TRIESTE Arte & Cultura – marzo/aprile 2011
Walter Chiereghin
L’opera narrativa di Giuseppe O. Longo si esercita in prevalenza nel genere del racconto, anche se probabilmente molti tra i suoi lettori più assidui rimpiangono la dilatata dimensione del romanzo che, fin da quello di esordio, l’indimenticabile Di alcune orme sopra la neve, ha subito posto in evidenza le sue qualità di narratore raffinato e originale, per i temi che si intrecciano nella sua poetica, per uno stile di scrittura laborioso e articolato, ma soprattutto per la descrizione dell’inesausta ricerca di un senso compiuto della realtà, un assillo epistemologico che proprio in quel suo primo romanzo viene definito come un dovere ineludibile e, insieme, come sforzo assolutamente vano.
Quanto a quel romanzo è seguito, due altri romanzi e una quantità di racconti ormai più che ragguardevole, getta luce su un’altra connotazione di Longo narratore (della sua produzione scientifica non sarei in grado di spiccicare due parole): una sfaccettata versatilità, anche a tacere dell’apparente divergenza dei suoi interessi divisi tra il rigore dell’attività scientifica e la libertà di spaziare in dimensioni fantastiche proprie del lavoro narrativo. Una versatilità che anche nell’ambito più schiettamente creativo si esercita in una pluralità di “filoni”, della cui variegata poliedricità sono testimoni proprio i racconti, per la stessa loro natura compatta rispondenti a esigenze espressive differenziate. L’attenzione del lettore viene così sollecitata, di volta in volta, a soffermarsi sulla introspezione psicologica, su acuminati rapporti interpersonali, sulla riflessione circa la coesistenza simbiotica tra l’uomo e la macchina (dove la macchina è protesi di attività intellettive superiori), sulla condizione di salute/malattia, sull’erotismo a volte sublimato, altre volte crudamente messo in scena, sulla proiezione nei mondi futuribili, su quanto insomma costituisce l’universo immaginativo di una personalità vigile e complessa, divisa tra la solidità di una visione d’impianto razionale e il pur sorvegliato abbandono a sondare situazioni e stati d’animo che gettano una luce parziale, anche se talora accecante, su oscuri nodi della coscienza e dell’inconscio. Oppure, in un elegante elzeviro dell’immaginazione, proiettare in dimensioni spaziali o temporali assolutamente arbitrarie vicende e personaggi costituenti il pretesto per rappresentare, in scoperte o velate tessiture metaforiche, aspetti della realtà esistenziale o sociologica che, in un ordito narrativo più realistico, non avrebbero modo di esplicitarsi.
A quest’ultimo filone della complicata miniera di Longo appartengono i racconti de Il ministro della Muraglia (Trasciatti editore, pp. 120, Euro 10), pubblicati nello scorso dicembre da un piccolo editore di Lucca in un volumetto di accattivante impostazione grafica, impreziosita dalle tavole monocrome di Loretta Schievano. Si tratta di racconti in gran parte già pubblicati (due soli gli inediti), ma su riviste e antologie che ne rendono oggi difficile la reperibilità, scritti tra il 1979 e il 1997, in un arco temporale dunque sufficientemente allargato da far ritenere che la selezione compiuta sia essa stessa opera creativa, invitandoci a cogliere il filo che lega tra loro i singoli testi. Banalmente, tale filo è dato dalla rappresentazione fantastica, che non definiamo fantascientifica in quanto con la fantascienza classica ha da spartire soltanto talune ambientazioni o la presenza, ad esempio, di una misteriosa creatura non umana che finisce per compiere un’azione bestiale, ma anche troppo umana nel primo dei racconti qui esibiti. Verrebbe da dire, per definire meglio la qualità dei racconti, che si tratta di vicende surreali, in cui talvolta è solo l’impossibilità di collocare in parametri storici e geografici riconoscibili le ambientazioni a farci percepire un senso d’irrealtà, quando al contrario in ciascun racconto è identificabile il senso profondo di una realtà attinta con maggiore chiarezza. C’è qualcosa di kafkiano che si aggira in tutta l’opera di Longo, ma in questi racconti si ritrova anche tanto d’altro, Clifford Simack, per esempio, per quanto di un grande classico della fantascienza qual è City è possibile rinvenire nella civiltà post-umana descritta in Rimpianto degli uomini, oppure per l’atmosfera dei due racconti finora inediti, Fornace vecchia e Il ministro della Muraglia, entrambi in assonanza con la buzzatiana fortezza Bastiani, il baluardo di confine del Deserto dei Tartari. D’altra parte il lettore potrà scoprire ulteriori analogie e rimandi, a piacimento, in un libro che non esita a confrontarsi nemmeno con la Genesi, com’è per Cosmogonia elementare.
Il tutto è rifuso nel materiale a Longo congeniale: l’inanità di ogni tentativo di appropriarsi del reale tramite la conoscenza, per andare invece a ricercarne le labili vestigia muniti, più che della ragione, delle armi pietose di una sofferta partecipazione emotiva, di una contemplazione della condizione umana sempre conscia dei propri dolenti invalicabili limiti.