O. Longo! Ancora una recensione

di Trasciatti il 15 maggio 2011 · 0 commenti

Alberto Biuso su Il Ministro della Muraglia di Giuseppe O. Longo (articolo apparso su www.vitapensata.eu)

Una luce sanguigna si riverbera dalla scrittura di Longo, sorge dalle parole, dal loro suono, si addensa nei significati, splende di potenza cromatica e di esatta e appassionata armonia fonica. Come in ogni grande scrittura, in ogni scrittura vera, non si dà più differenza o salto tra quanto viene narrato e il modo del dire, come se la verità del mondo germinasse da sé, dalle parole stesse, dall’eco che esse sono di «un certo canto e un’armonia che vengono da un tempo così lontano che il tempo non c’era ancora» (p. 31). La nostalgia di questo canto è la letteratura.
I dieci racconti della silloge descrivono mondi reali, mondi possibili, mondi profondi. In essi prende forma l’informe di creature costruite nei laboratori o inventati negli incubi (Aviatore al tramonto; Dall’abisso); si disegnano cosmogonie sonore e genealogie inquietanti (Cosmogonia elementare; Rimpianto degli uomini); si precipita nel buio del non essere, di una dissolvenza che alcuni laboratori metafisici producono come scarto e distrazione nel loro agire (Registrazione); si fa la guardia a mari e oceani che più non esistono ma la cui sola idea o antica favolosa presenza è capace di dare senso a un faro o a una possente, indefinita muraglia (I pianeti della Stella Polare; Il ministro della Muraglia); si entra nel labirinto di un racconto costruito a ritroso, che dalle città ormai abbandonate descrive l’avvistamento di un asteroide la cui orbita sempre più vicina alla Terra spezza le normali vite degli uomini (Premesse a Tirteo); si accetta di morire in pianeti lontani poiché ovunque nel vasto universo «ci sono grumi di carne che tormentano e uccidono altri grumi di carne» (p. 103; Venuto da Udvar); ci si avvicina a una possente architettura che un tempo sembrava costruirsi da sola “dentro da sé, del suo colore stesso” (Paradiso, XXXIII, 130) e che ora, abbandonata, diventa «un messaggio indecifrabile» alla cui vicinanza si sentono «formicolare antichi rimorsi» (p. 38) che impediscono di proseguire il cammino oltre quell’edificio (Fornace vecchia).
Su tutto e dentro tutto par di sentire «quel messaggio che qualcuno o qualcosa inviava da una lontananza che non era né di tempo né di spazio, ma di natura e colori diversi, quasi incommensurabili» (p. 20). Quale messaggio? Quale strada, origine, svelame vogliono questi racconti indicare? A me sembra che essi sorgano da una «felice immaterialità, presagio d’infinito» (p. 21), che testimonino della ragione per cui tutto, tutto, è «stato suscitato dal grembo oscuro del nulla e scagliato sulle riviere del tempo stillanti tristezza» (p. 23) e da tale caduta siano sorte le lacrime, i rimpianti, il dolore, «il pentimento per una colpa che non è mai stata commessa» (p. 74) ma che ha generato «il buio compatto del nostro abbandono» (p. 87).
Vivere, esserci, significa dunque per gli umani -e forse per ogni vivente- immergersi in «un puzzo di marcio, un marcio preistorico, abissale, che portava con sé tutte le putredini dell’universo, tutte le infezioni del passato, i cadaveri del mondo, lo sfacimento della carne, le carogne accumulate nelle fosse delle ere geologiche…» (pp. 112-113), come se le profondità del nostro dolore, quel dolore che non è astratta parola o semplice sensazione corporea ma che intesse di continuo la mia e la tua vita, lettore, come se questo dolore rimbombi e di continuo avanzi e da sé generi un «pianto di disperazione e di orrore» (p. 116). Queste sono le ultime parole del libro ma non sono quelle sulle quali il libro si chiude. Poiché le parole, la scrittura sacra del mondo, non sono nate dall’angoscia e dalla tristezza ma dalla forza che oppone -come Muraglia inventata eppure colma di senso- a quel nulla denso di pianto che è l’umana esistenza, oppone la certezza che c’è stato un «tempo remoto, quando certe amputazioni e certi distacchi non erano ancora avvenuti, quando regnava ancora una mirabile pienezza…» (p. 15). Ecco la parola che splende, che illumina, che dà senso a ogni sofferenza e a tutte le vite. È da questa pienezza, Plèroma della mente e del tempo, che i racconti di Longo -e l’intera sua opera narrativa- traggono quella strana gaiezza che sottende anche le pagine più dolorose e che le riscatta nella bellezza della parola che svela, che conosce e che conoscendo finalmente sorride.

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