Un vino da ascoltare: omaggio a Pino Ratto e al suo dolcetto
di Gianvittorio Randaccio
Qualche dubbio, mentre telefoni a Pino Ratto, ti viene. Hai già provato cinque volte e non ha risposto nessuno, se non un fax che, dopo una decina di squilli a vuoto, ti ha trapanato ogni volta l’orecchio e il cervello. Hai pensato anche di mandargli un fax per preannunciargli la tua visita, ma non te la sei sentita, forse sei meno moderno di quello che vuoi dare a intendere, o forse il fax ti è sempre sembrato una macchina diabolica.
A un certo punto, però, Pino risponde e, con la sua erre arrotata, ti dice che a lui farebbe piacere incontrarti, puoi venire quando vuoi in mattinata, tanto lui dalle sette è in piedi: ah, e poi se vuoi del vino devi portarti i recipienti, perché lui di bottiglie e di tappi non ne ha più, è qualche anno che non vinifica, l’unico vino che gli è rimasto è ancora nelle barrique, giù in cantina.
Pino Ratto vive a Rocca Grimalda, sopra Ovada, in frazione San Lorenzo, alla fine di una via che sembra portarti in un’altra nazione, tra prati, vigne, curve e pendii improvvisi. La sua casa è l’ultima, dopo non c’è più niente, solo bosco, rovi e serpenti. Quando arrivi, in compagnia di due amici ad alta gradazione alcolica, non c’è nessuno, ma non ti stupisci, anzi, ti sembra impossibile che in quest’eremo scalcinato viva qualcuno: la casa è in stato di abbandono avanzato, sul prato ci sono gli avanzi di molte vite: sedie, tavoli, bottiglie vuote, gomme, un gatto acciambellato vicino a una damigiana. Non prende nemmeno il telefonino, solo quello del tuo amico ha una disperata tacchettina, che permette di sentire che il telefono all’interno della casa suona, ma nessuno risponde, solo il solito fax. Un vicino di casa ci dice che Pino sarà in giro con il suo doblò bianco, e magari tra poco lo troviamo.
Bisogna rivedere i programmi, allora. È un attimo, si va a Rocca Grimalda, beviamo qualcosa in un bar e aspettiamo che Pino torni, più che altro speriamo che Pino torni, chissà dov’è finito. Al Bar Genova facciamo un paio di giri di Barbera e Cortese, vini di queste parti, tra Piemonte e Liguria, poi, inaspettatamente, Pino risponde al telefono: sono tornato, dice, ero uscito, e dalla voce capisci che è stupito del tuo stupore, come uno che pensa che potrà pure uscire una mezz’oretta anche se qualche giorno fa ti ha detto di venire quando vuoi, che tanto lui si alza alle sette del mattino.
E allora, velocissimi, eccoci di nuovo davanti a casa. Lui ci sente arrivare, apre la porta e ci accoglie, stanco e con la faccia triste. Dice che non sta tanto bene, che è arrivato, qualunque cosa questo voglia dire. Io rimango spiazzato. Però siamo venuti fin qua per lui, e allora cerchiamo di conoscerci, per quel poco che si può fare in un’occasione come questa. Pino ci indica le sue vigne, che a guardarle adesso bisogna un po’ immaginarsele, visto che sembrano più dei boschi invece che quei luoghi dell’anima chiamati Gli Scarsi e Le Olive, da cui nascevano quei vini così incredibili: ormai lui lì non ci va più e tutto sta andando in malora, un po’ come la casa. Anche i calici che ci vengono offerti sembrano aver vissuto giorni migliori, così come la porta della cantina in cui, a fatica, veniamo accompagnati per assaggiare l’ultima annata prodotta. Fin da subito la cantina ci sembra appartenere a un altro mondo: è grande, spaziosa, fresca, e anche se è in stato di abbandono, sembra fare ancora benissimo il suo lavoro. Sul retro una parete è costituita da pannelli di plastica, probabilmente l’unica soluzione trovata per far finta che anche lì ci sia un muro e che, pensa un po’, questo possa proteggere adeguatamente il vino che riposa qui da anni.
Pino sposta una botte, prende un siringone, a me sembra uno sciamano, e ci riempie i calici di quello che dice essere il Dolcetto degli Scarsi, annata 2006, o giù di lì, non si ricorda bene. È il suo vino più forte, più maschio, quello de Le Olive è più gentile, e ci dice che possiamo anche non dirgli niente, perché quelli che si dicono veri esperti di vino non si sbilanciano mai, lasciano sempre parlare gli altri, per paura di fare brutte figure. Ma noi non siamo degli esperti e non abbiamo paura di dire la nostra: questo dolcetto sembra tutto tranne un dolcetto. È di una potenza spaventosa, e ti fa rendere conto subito che è vero che i vini di Pino Ratto non si possono bere da giovani, a meno che non si sia in cerca di esperienze forti. Nel calice ho un vino di cinque anni che è di un rosso quasi granato, che fa sedici gradi, che sa di frutta e legno e di mille altre cose, che sprigiona un’energia che quasi ti manda al tappeto. E mentre cerco di capire cosa sto bevendo finalmente Pino si apre un po’: ci parla di quando giocava a calcio (anni Cinquanta, serie A, nel Genoa), del fatto che qualcuno prima di una partita gli abbia detto la cosa sbagliata nel momento sbagliato e lui gli ha tirato addosso uno scarpino, dicendo addio ai sogni di gloria; di quando suonava il jazz in Francia, il clarinetto, e del fatto che a lui sembra impossibile che ci sia gente che suona sempre la stessa nota per tutta la vita, come si fa a non annoiarsi così? Poi, come per sbaglio, parliamo anche di vino: del fatto che lui ha cominciato per colpa di suo padre, che le barriques vanno benissimo per far invecchiare il vino, basta che non siano giovani, che siano state tostate bene, e che si sappiano usare. Suo padre usava le botti grandi, è per questo che lui è passato alle barrique: forse l’unico vero obiettivo della sua vita è stato fare il vino meglio di suo padre, e farlo facendo esattamente il contrario di quello che faceva lui.
Ogni tanto Pino si ferma e sembra che si commuova un po’, soprattutto quando gli dico che mi fa una certa emozione stare nella stessa cantina in cui più di trent’anni fa anche Mario Soldati assaggiava il suo vino e si aggirava tra bottiglie e barrique. Non gli chiedo niente di Veronelli, chissà cosa succederebbe, qui di emozione ce n’è a fiumi.
Il vino che ho nel calice intanto si ingentilisce, basta qualche minuto perché sprigioni nuovi profumi e aromi e ti accarezzi il palato con più morbidezza: forse non è il vino più buono che io abbia mai bevuto, ma pensare che questo prodigio sia fatto con uve dolcetto mi affascina e stupisce. Pino mi dice che il vino basta saperlo fare, e a lui viene sempre su un gran nervoso quando pensa a tutte le porcherie che si fanno per commercializzare liquidi che del vino hanno solo il nome stampato sull’etichetta. Il dolcetto ne avrebbe di potenziale, eccome, ma se la gente vuole solo fare soldi in fretta, ci si ritroverà sempre con quelle schifezze che ti propinano, è matematico. Il suo vino, invece, è fatto con amore, con passione, e si sente: è un vino bizzarro, imponente, si dice che ogni bottiglia sia diversa dall’altra e che non sia difficile trovare annate storte, con puzze e difetti evidenti. Per Pino Ratto, però, è una cosa normale: il vino ha centinaia di componenti, come fai a pensare di controllarle tutte, come puoi sostituirti alla natura e produrre qualcosa di diverso da quello che l’uva di ogni singolo ceppo è pronta a fare? Lui non ne vuole sapere di chimica, di tagli, di porcherie: non sa bene neanche lui come gli viene fuori questo dolcetto, ma è giusto così, e lo è sempre stato.
Io, ma non avevo dubbi, sono d’accordo con lui, e penso di avere una fortuna incredibile, mentre lo vedo riempirmi le bottiglie che ho portato da casa: tra un po’ il vino di Pino Ratto non si troverà più, e io conserverò questi pochi litri come un tesoro prezioso, da centellinare piano piano, nel corso degli anni.
Passa ancora poco, ormai, ed è ora di pranzo. Pino va in un angolo e prende una bottiglia da uno scatolone: dice che è di una decina di anni fa, che possiamo berla a casa, con calma. Sul tappo c’è un ragno, anche un filo di muffa. Io e i miei amici non sappiamo cosa troveremo lì dentro, ma se anche solo sarà una cosa bevibile, la gusteremo come un pezzo di storia, assaporandone ogni sorso.
Poi, senza voler nemmeno discutere, Pino salta sul suo doblò e decide di accompagnarci a Silvano d’Orba, per un pranzo veloce: lui non si ferma con noi, ha già mangiato due panini, e poi nel pomeriggio viene ancora gente, ma ci scorta volentieri. Quando arriviamo al ristorante scoppia un temporale, forse è un segno del destino, e quando lo salutiamo nella mia testa rimbomba la cosa che Pino mi ha detto quando gli ho chiesto come sia possibile riuscire a fare un vino come il suo: è semplice, mi ha detto, il vino parla, basta solo saperlo ascoltare.
Facile, no?
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Vecchio mio…ancora una volta i tuoi racconti mi fanno venire mille emozioni, mille brividi. Ma soprattutto lo sguardo di un Signore come Pino Ratto mi fa prendere da una forte emozione!!
Un momento indimenticabile, direi.
Grazie
Ratto il cor s’apprende… eh sì, Randaccio è uno scovatore di desuetudine, lo pago per questo. Ora dovrò affidargli un’altra missione: mettersi sulle tracce del Postino Cavallo.
ehi!!!! alura????? che si dice ????
Andrea Lesmo il musicista?
Se è l’Andrea Lesmo che penso io, mi ricordo che suonava il pianoforte, però non so se basta questo a definirlo musicista. Comunque, caro Andrea Lesmo, sempre che tu sia l’Andrea Lesmo che conosco io, da me si dice che va tutto bene e che hai fatto proprio bene a finire su questo sito così inattuale, ma molto ospitale. E bada che ti direi queste cose anche se tu non fossi l’Andrea Lesmo che conosco io, ma un Andrea Lesmo qualunque, magari un ragioniere o un infermiere. Però è a te, Andrea Lesmo che conosco e che suonavi il pianoforte, che chiedo: e alura? da te che si dice?
l’Andrea Lesmo che dico io è un musicista folk, suona musica celtica, non so se è questo Andre Lesmo che dici tu che suonava il piano, magari sì. Guarda su youtube, c’è parecchia roba, magari lo riconosci.
No, non è lui: l’Andrea Lesmo che conosco io è più giovane e aitante.
Chissà se si farà sentire per dire che si dice dov’è adesso.
questi andrei lesmi sono misteriosi e imprevedibili. pensa poi se si alleano e fanno un’azione comune.