Ho caricato, diligentemente, il mio fardello, diviso e bilanciato in due some. E per affrontare senza pompa la china acciottolata, l’ho ridotte ai minimi termini, al loro sentimentale peso specifico.
Salgo, quindi, verso Sabiona con due mezze noci vuote in tasca, una a destra, una a sinistra, sufficienti a dire e rappresentare la mia doppia pena: il qui (l’hic) e ora (nunc) quasi a portata di mano. Due minuscoli battelli da recapitare, passeggeri e chiglia, in cima al monte.
Cammino e a certe spire del sentiero potrebbe non tenermi il piede, che si fa via via pesante.
C’è però il respiro e ascendo, scivolando sulla gamba fessa.
Superata la porta dei bastioni esterni, oltre il parapetto, scorgo un mucchio di pietre, scalzate di fresco da un pendio terrazzato.
Hanno un colore più chiaro che indica pensieri non più di terra, solo occhiate verso il cielo e la nuova vigna appena piantata.
Altre, antichissime, hanno preso posto sotto i miei piedi, facendo nuova trama al dorso del monte.
Pietre lucidissime come lavate dal periodico diluvio di passi. Avverto l’attrito con gli ultimi metri di salita.
Subito dopo l’arco, si entra, ma sarebbe meglio dire, si sbatte contro una vena di roccia.
Ferita viva che mi fa posto.
Sarebbe questo l’abbraccio? Il monte soccorrevole? Entrare nella pietra?
Segni ricorrenti e pii lo confermano. Stiamo quassù in piena arsura, dentro un taglio.
Forse è questa l’apologia della vita monastica e di clausura: scegliersi la vetta di un monte, scendere nella propria ferita e sigillarla con nuovo fuoco, riunendo i palmi delle mani, gli spicchi speculari della noce.
Il sorriso della Badessa, così mansueto e libero, senza più tempo né spazio in mezzo, resta custodito nelle righe del libro, nei solchi dell’orto, dietro il filo che cuce.
Poco o niente, solo righe contigue, aperte.
In alto: Continental drift (Painting for Alfred Wegener), 2008,
olio su tela di Hannes Vonmetz