di Giuseppe Grattacaso
In luoghi confinati, insieme familiari e misteriosi, si muove la poesia di Roberto Amato. La geografia di Le cucine celesti si sviluppa a partire da interni segnati dal trascorrere del tempo, da stanze ingombre, da cucine dove le donne si muovono con armoniosa e circospetta solerzia, da giardini immediatamente a ridosso delle case. Sono le terre conosciute e quotidiane, ma allo stesso tempo mitiche e dunque leggendarie, sulle quali agiscono personaggi dai nomi e dai volti familiari, non si sa se veramente presenti o se vivi solo nella memoria.
Le cose, attestate in luoghi prossimi e consueti, e ancora di più i corpi degli uomini e degli animali, e le loro appendici, non sembrano però soddisfatti della loro posizione, o forse non sono del tutto consapevoli della condizione che loro attiene. Ci restituiscono infatti, come in un evocativo e incantato gioco di specchi, l’immagine di altre forme, di spazi lontani e sconosciuti, di sconfinate praterie siderali e di costellazioni. Il figlio Lapo, uno dei tanti personaggi di quel lessico familiare che si propone costantemente al lettore, si accorge “fin dal primo vagito” che il padre ha le mani fatte d’aria e che “nel vestito / non c’era quasi niente”, tranne la voce che è chiusa “nella bambagia della barba finta / e lunga / e sfusa / come i pappi dell’Orsa / e le lattigini / delle folte comete”.
Sembra insomma che uomini e oggetti non riescano a stare al loro posto, e che, situati davanti agli occhi del poeta, facciano di tutto per confondere la visione, per scivolare in territori a cui non appartengono, per evaporare verso l’alto, in cerca di un luogo diverso, del punto d’approdo a cui credono di essere destinati. Succede perciò che ancora la barba “è un cavolfiore così morbido / si svolge per tutto il firmamento // (per il dolce e fatale / Principio della Levitazione Universale)”.
Il Principio della Levitazione Universale è, a ben guardare, il contrario della legge di gravità: per esso insomma le cose tenderebbero ad andare verso l’alto, a ritrovare una loro identità e un loro posto accanto alle nuvole, a contatto con uccelli e astri celesti. Il mondo terreno aspira a una leggerezza che si intravede nella difficoltà di uomini, animali e cose ad accettare la loro condizione e il loro posto. Tutto questo permette anche un fitto dialogo tra gli elementi, non importa di quale regno fisico essi facciano parte.
Nella poesia di Amato le presenze della natura lontana e quelle del mondo familiare, le figure varie, animate e non, che compongono la realtà di ogni giorno, si scompongono e si sovrappongono. Così in una drogheria la vegetazione nelle sue varie forme, ma anche gli animali e soprattutto gli uccelli, possono fare capolino tra alici sfilettate, prosciutti e capocolli. L’incanto non è solo nella mente di chi vede e poi restituisce gli elementi e la narrazione della visione, ma ingrediente stesso del mondo, che si presenta a noi confuso e disordinato, imperfetto o forse fornito di una perfezione che non abbiamo gli strumenti per intendere ed afferrare. Accade così che il droghiere che dovrebbe “dividere il creato negli scaffali”, finisce per fare confusione, per mescolare prodotti e cose provenienti da settori e da mondi diversi.
In effetti, quelle che a prima vista possono apparire immagini metaforiche, termini di paragone utili a comporre una figura retorica, nella lingua poetica di Amato entrano a far parte della realtà a pieno diritto, si sistemano con forza e convinzione accanto agli oggetti che per più antica consuetudine appaiono collocati nel posto che gli spetta. E’ così che drogheria e cucine (che sono appunto, non dimentichiamolo, celesti, mettendo insieme l’alchimia quotidiana e tanto concreta della lavorazione del cibo con la spirituale evanescenza delle presenze immateriali e incorporee) diventano gli spazi dove si manifesta una speciale mitologia poetica, i luoghi protetti dove si mescolano ingredienti diversi e inusuali, per dare luogo a qualcosa di inaspettato, a volte di meraviglioso. Gli oggetti non sono nemmeno i correlativi di una nostra condizione esistenziale o i segnali di un sentimento comune universale, sono ancora se stessi, provocatoriamente e assurdamente se stessi, ma scivolati o appunto levitati verso un mondo altro, sorprendente e vago, o forse finalmente restituiti ad esso.
C’è qualcosa di limitato nella nostra condizione di uomini, se ci sforziamo con tanta determinazione perché la realtà non ci confonda con la sua insensatezza, se cerchiamo in ogni modo di essere concilianti con la visione parziale e circoscritta di quanto ci accade intorno, se della vita evitiamo con cura le vertigini, gli spostamenti di senso, i deragliamenti, gli sbandamenti, così provvidi e normali dice la poesia di Amato, dall’una all’altra condizione naturale: “… ma questo tempo incomprensibile / per noi che non abbiamo le ali / e che stupidamente / non dormiamo sugli alberi…”.
Naturalmente tra gli uomini c’è chi si mostra inadatto a comprendere, e sono i più, coloro che vanno sicuri delle loro certezze, della stabile e ordinata composizione della realtà: “Ho contemplato una balena / e mi pareva l’orsa / con un cesto di pesci e di comete // ho chiesto a un vecchio prete cosa fosse / quel carico di stelle // lui rimbambito / (si contava i bottoni della veste) / disse che non aveva visto niente”.
L’età dorata dove è possibile che la confusione dei ruoli e dei mondi diventi sistema ed anzi si manifesti, come se fosse norma, nella sua ovvietà e nella pienezza della significazione, è naturalmente l’infanzia. E’ quello il periodo in cui possiamo crederci uccelli, fare prove di volo dimenando le braccia, correre e saltare fingendo di essere animali. Ed è l’età verso la quale la poesia di Le cucine celesti sempre fa ritorno, non per farne pascolianamente l’eden irricostruibile degli affetti, o anche lo strumento privilegiato della conoscenza: per Amato l’infanzia è la sola età in cui veramente si vive, in cui i mondi si rappresentano in un disequilibrio che non può essere messo in discussione, in cui il tempo non è un susseguirsi ordinato e irreversibile, ma compresenza di passato e presente. “… e cammina cammina / io in qualche posto andavo / e seminavo da per tutto / i fazzoletti / i piccoli bottoni / dal fischio dei calzoni / corti // (ora / saremo certamente tutti morti / ecco perché si sogna / tutto il giorno) // ma qualche volta torno / seguo la scia dei moccichini”.
Se è vero che anche il tempo mescola le carte e il poeta vive in un presente in cui continuamente avanzano figure provenienti da altre età, allora la famiglia diventa inevitabilmente un organismo allargato. Nonne e nonni, zie e zii, cugini, genitori e figli si cercano, si incontrano e si parlano, non importa se siano vivi o morti, abitano stanze e cucine che non si sa se appartengono alle case di oggi o sono solo luoghi della memoria. Roberto Amato racconta la sua famiglia come un cantastorie le vicende di paladini, con intrecci complicati e scompigliati, improvvise interruzioni e salti nello spazio e nel tempo, interventi magici che intralciano i progetti o lasciano intravedere uno scioglimento. La poesia si anima di personaggi che sembrano appartenere appunto a vicende eroiche e leggendarie: il nonno Efisio, Giardiniere di Boboli, la Zita, la lunghissima Ofelia, la Titina, la sorella Alina (“quella bambina sordomuta / che andavo coltivando insieme ai fiori delle zucche”, che ha gli occhi che volano “sopra le foglie nere / delle cicorie altissime”); e poi Lapo, l’Orca, la Clara, l’Alfira, Ezechiele, le Fate, ed Efisio il facchino che “non mi ricordo che abbia / proferito verbo, tranne quel suo cantare / da mezzosobrio / o alticcio / soltanto per lodare stoccafissi / o totani cuciti con un ripieno di frattaglie/ d’oche”.
Al disordine del mondo, al guazzabuglio ostinato dell’esistenza, la poesia di Amato non cerca di fornire un assetto più stabile e ordinato. Il compito del poeta è anzi quello di accettare lo stupore che la visione implica, di restituire al lettore il senso della meraviglia. Questo non significa che la poesia si conceda all’improvvisazione e alla spontaneità. Al contrario il verso è sempre misurato e controllato, e dimostra una lunga e ragionata consuetudine con i grandi autori del secolo scorso.
Non conosco personalmente Roberto Amato, ma so da uno scritto di Manlio Cancogni, tra i primi a leggere i suoi versi, che “pare uscito da un racconto nordico di maghi e stregonerie”. Io me lo figuro che “alto, magro allampanato” cammini spesso senza avere una meta precisa, anzi, se mai l’avesse, dimenticandola, ritrovandosi poi chissà dove, ma lontano, senz’altro lontano dal luogo dove sarebbe dovuto arrivare. Immagino che , se fosse a camminare per qualche sentiero di montagna, non andrebbe in cerca di funghi ma di fossili di conchiglie, delle tracce del passaggio di qualche pesce, sicuramente avvenuto in un’epoca remota, che lui crede ancora attuale; o alzerebbe gli occhi al cielo, avendo percepito il verso di un uccello marino in crisi di orientamento. Su una spiaggia invece non sarebbe attratto da stelle marine e ossi di seppia, ma da rami levigati e contorti, residui di un luogo lontano, testimonianza di una dimenticata foresta.