«Cazzo! Ma perché non si levano dalle balle? ‘ste troie al volante»! Diede l’ennesimo colpo di clacson. Poi si accorse che non era colpa dell’auto guidata da una donna, ma che era un incidente a bloccare il normale scorrimento del traffico. Doveva arrendersi e restare in coda per chissà quanto tempo. «Porcoddio»! Non c’era niente da fare. Non gli restava che aspettare. Si accese l’ennesima sigaretta.
La sera calava veloce. Il cielo mostrava le ultime striature rossastre, quelle che solo il freddo e l’aria tersa dell’inverno fanno vedere.
Avrebbe necessariamente ritardato il suo rientro a casa. La cosa non gli dispiaceva. La famiglia gli pesava. Una moglie perbene, sì, ma noiosa. «Mai un guizzo, mai una fantasia» – borbottò tra sé. Poi quei dannati marmocchi: due bambine piagnucolose come la madre e un maschietto che prendeva il peggio dal gineceo in cui viveva. «Che maschio è quello? Piccolo di statura per i suoi dieci anni e sempre con le sorelle o con le sue stupide automobiline! Non ha proprio preso da me»!
Le altre persone in coda iniziavano a dare segni d’insofferenza. I suoni dei clacson si ripetevano ormai in modo ossessivo. Lui aveva smesso e, ora, non poteva sopportare che altri provassero la sua stessa impazienza. «Che coglioni! Cosa vi cambia suonare così»?
Mise della musica. Chet Baker. Ripensò alla moglie. «Jacques Brel. Lei solo quei maledetti insopportabili lagnosi francesi»! Pensò di non rientrare per cena. Non gli piaceva, del resto, neppure come cucinava. «Mi fermerò da qualche parte. Ora la chiamo».
Fece più volte il numero di casa. Sempre occupato. Il cellulare, come sempre, spento. «Ma perché mai glielo avrò regalato»?
Ormai non restava più nessuna traccia del tramonto. Ora il buio della notte dominava e le sirene delle autoambulanze non davano pace.
«Deve essere successo qualcosa di grosso». Si trovava imbottigliato in una coda di cui non si vedeva né l’inizio né la fine. Avrebbe potuto scendere e chiedere spiegazioni. Non ne aveva voglia. Spense anche la musica. Pensò di chiamare la sua amica per proporle di mangiare con lui e poi magari… Ci ripensò. «No, donne stasera, no».
Rimase al posto di guida. Dal finestrino vedeva un andirivieni di persone. Poi dei barellieri. Lui restava solo un immobile spettatore.
Ma il suo sguardo, ad un certo momento, iniziò a superare l’affollamento della strada e a salire su per le colline che costeggiavano la superstrada.
Salì su dove si vedevano diverse abitazioni: piccoli condomini, squallide villette e alcune ville. Lo spettacolo di tutte le sere. Ma ora, lì fermo, il suo occhio poteva indugiare sulle luci delle finestre accese.
Di colpo, una dopo l’altra, le finestre prendevano vita. Immaginò quali persone si muovessero là dentro. Iniziò a divertirsi a fantasticare. Pensò a quelle stanze illuminate dove qualcosa prendeva vita e quella vita, vista da lui che ne era al di fuori, era qualcosa di commuovente. Pensò che inteneriscono sempre le luci nelle case di sera, per chi ancora deve arrivare o per chi è lontano.
Si rivide bambino. Si rivide in viaggio – un viaggio di più di un’ora – in auto con suo padre e sua madre che lo portavano in collegio in città. Aveva undici anni, ma non era come gli altri bambini. Era, al tempo stesso, più sensibile e più ribelle. Era un bambino diverso.
Il collegio. Tre anni lunghi quanto una vita. Una vita di cui aveva serbato gelosamente e dolorosamente due ricordi. I suoi compagni più grandi che lo chiamavano bambolina, perché piccolo di statura e bello. Già, quel bambolina non lo avrebbe abbandonato mai. Bambolina. Anche in mezzo alle ragazze che spudoratamente lo avrebbero corteggiato e con cui avrebbe avuto una storia dopo l’altra, quella parola gli sarebbe martellata nel cervello. Aveva, addirittura, proibito a sua madre di mostrare la foto in cui lui compariva –unico- con i calzoni al ginocchio, in prima fila. Bambolina.
Poi l’altro, ora che vedeva le luci delle case accendersi con una incredibile frequenza. Ecco, lui bambino, con gli occhi alla finestra, mentre guardava accendersi le luci nelle case, sperando – chissà come- di vedere la sua. Due fari nella notte che cercavano di riconoscere nel buio la sua casa, che sognavano il calore della famiglia.
Era in preda, mentre lentamente il traffico ricominciava a fluire, a uno struggimento indicibile. Di colpo rivide il suo, di bambino, piccolo di statura e bello. Pensò che con i suoi occhi appoggiati al vetro della finestra che dava sulla via, forse, lo stava aspettando. Due fari nella notte in attesa del suo arrivo.
Pigiò il piede sull’acceleratore. Doveva correre da lui. Non gl’importavano né la moglie né le due figlie, ma il suo bambino, quel suo bambino che magari nascondeva lui pure un segreto (o due segreti?), quello sì che ora gl’importava.