Monica Dini: Orologio a uccelli esotici

di Trasciatti il 17 ottobre 2011 · 0 commenti

Questo è il miglior bar del paese. Non è il più bello. È quello in cui il barista parla meno.
Sto aspettando Laura una mia amica. O qualcosa di simile.
Mi sono seduta qui, proprio davanti alla vetrata, guardo la strada. È area pedonale. La gente cammina restringendosi sotto l’ombrello. Piove forte. Ieri c’è stato l’ultimo corso di Carnevale e oggi la pioggia rende tutto ridicolo. Bagna la grande testa di cartapesta davanti al chiosco dei bomboloni. Uno strato si è scollato e ciondola dal naso. Le stelle filanti intasano gli scarichi insieme ai coriandoli e ai fazzoletti di carta. Le trombette dei festoni sono zuppe, piegano su se stesse.
Laura mi ha telefonato ieri. Qualche giorno fa è morto suo padre. Sentiva il bisogno di parlare, per questo sono qui. Per ascoltarla. Sono arrivata prima perché non avevo voglia di fare niente a casa. Ho mal di testa. Soffro il tempo. Spero che la mia amica non pianga. Non sono granché a consolare. Mi imbarazza cercare scuse per cose ingiustificabili. Non so che dire.
Alle mie spalle attaccato al muro tinto di rosso spento, c’è un orologio a uccelli. Gorgheggia le 10:00.
Sono uccelli esotici, non dei nostri. C’è anche il Bem Te Vi col capo color tasso e il petto di limone. Il suo nome è il suo verso, me lo ha spiegato mio zio. In Brasile dove vive lui ci sono i Bem Te Vi.
Laura è in ritardo come al solito. Al barista muto chiedo un cappuccino bollente. Lo sa fare. In pochi ci riescono. A cosa serve che sia bollente? A sorseggiarlo pensando tra un sorso e l’altro, con comodità, senza che l’ultimo sorso sia freddo. Non è poco.
Entra nel bar una signora con una cesta di piantine fiorite. Arriva al mio tavolo insieme al cappuccino bollente. Mi dice:

- Puoi aiutarmi? Sono rimasta senza lavoro.

Non sorride mentre lo dice e questo io lo capisco perché perdere un lavoro serio e dover vendere fiori in giro non è divertente. Specialmente se a casa ti aspettano.
Bevo un sorso di cappuccino. Bravo barista! Brucia la lingua. Scelgo un piantina rosa. A me piacciono bianche ma non ce ne sono.

- Quanto ti devo? – chiedo.
- Sette euro – mi risponde impassibile la signora.
- Sei sicura che non sia rifinita in oro? Mi sembrano tanti sette euro.

Senza espressione, lei ribatte che ovunque quel tipo di piantine asfittiche costano così. Ci credo. La cosa migliore è crederci. Pago e bevo un altro sorso è ancora bollente. Vedi a cosa serve?
Ecco Laura. Non aveva l’ombrello. È fradicia. Ha un cerotto su una guancia.

- Ce l’hai fatta alla fine! Cos’hai sulla faccia? 
- Guarda … già che capitano tutte a me! Avevo un angioma minuscolo, una stronzata di angioma, ho comprato un mouse nuovo, hai visto che confezioni hanno, di plastica dura, sembra che gliel’abbiano fusa addosso? Ecco, mentre almanaccavo con quella ho graffiato l’angioma. Non smetteva di sanguinare, sono dovuta andare al pronto soccorso. L’hanno dovuto bruciare. Un buchetto così piccolo era una fontana. Non è un buon periodo … Tu cos’hai? Sei pallida.
- Ho mal di testa. È il tempo. È successo anche al bimbo di una mia collega dell’angioma.
- Non te la prendere … capitano i brutti momenti. Come è andata di tuo padre? Era tanto tempo che non stava bene, quanti anni aveva?
- Era vecchio. Erano ormai più di cinque anni che era allettato. Da un mese non ci riconosceva più. È finita ma è stata dura.

Laura ha gli occhi lucidi dentro le occhiaie.

- Sì, ad un certo punto bisogna andare. Non deve mai mancare la dignità. È meglio andare se manca quella.
- Mi sono raccomandata tanto al Signore, sai che io credo … non sono come te … ho chiesto ogni giorno che se lo prendesse e invece ha aspettato troppo. Martedì pomeriggio quando è morto mia madre era così rammaricata. Dopo anni passati a ungergli la pelle diventata di vetro. Dopo giorni che lo vegliava senza tregua, è morto proprio nell’attimo che si è appisolata.
- Sai che in molti casi succede così? Mia mamma può raccontarti lo stesso di quando è capitato di suo padre e anche un mio amico si è trovato in una condizione simile quando se n’è andata sua madre. Chissà se chi muore canta una nenia. Magari lo fa per sé per trovare il coraggio di lasciarci o per noi per farci meno male. O forse è che per un attimo, quando muore qualcuno che amiamo, moriamo anche noi e poi torniamo indietro. Non piangere. Hai detto che è meglio …
- Lo so … ma è stata un’agonia così lunga che non ricordo altro della nostra vita insieme.

Laura piange e ha le labbra impastate di saliva. Le lacrime ci rendono ridicoli.

- È stato lo scempio della malattia. Passerà. Ricorderai anche il resto. Ti tornerà in mente.
- Sai cos’ha detto mia madre? Guarda come sta bene adesso! Vorrei imbalsamarlo e tenerlo con me. Senti cosa le è passato per il cervello. Pover’uomo … diventare un soprammobile. Voleva tenerlo con sé … ha voluto dormire ancora una notte nella stessa camera. D’improvviso non gli faceva più impressione un morto.
- Non era un morto come dici tu era … una scatola di souvenir … conteneva ninnoli di una vita passata insieme. Alcuni conosciuti solo a loro. Inutile guardarli con altri.
- Forse. Ma deve essere stato un fatto istintivo. Un’improvvisa confidenza dell’ultimo minuto. Certe cose le hanno sempre fatto impressione. Ha sempre sperato che morisse in ospedale.

Il barista muto si è avvicinato, ha portato un cappuccino, un bicchiere d’acqua e una pastiglia bianca. Per il mal di testa dice. Lo guardo un attimo. Appoggia il vassoio e torna dietro il banco. Non è che sia proprio muto lo sapevo già. Però non abbiamo ordinato niente.

- Oddio! –  sospira Laura – mi ci voleva proprio. Come ha fatto a saperlo e anche che hai l’emicrania.

La guardo. Ha il viso lacrimoso e il cerotto è staccato per metà. Come la maschera bagnata dalla pioggia, forse non è cartapesta quella che le penzola dal naso. Forse è un cerotto di Carnevale.

- È telepatico il barista. Comunica col pensiero. Per quello parla poco. Forse i bisogni li legge sulla faccia … oppure ci ha sentite parlare.
- Ecco, quello è possibile.
- Un vero professionista. Questo è il miglior bar del paese.
- Per te e altri due sfigati forse … io per esempio non ci vengo mai.
- E ti perdi qualcosa, vedi?!
- Diceva: voglio tornare con la mia mamma. Voleva essere messo nella tomba con lei. Quante volte lo aveva detto. Lo abbiamo fatto cremare.
- Era la sua volontà?
- Di questo non ha mai parlato. L’abbiamo deciso noi. Quando mi hanno dato l’anfora con le ceneri era calda. L’ho scossa un po’ frusciava. Sembrava lo scorrere di tante piccole sfere. In macchina l’ho messa sulle gambe, ho allargato la giacca come ali. L’ho covata. Mi sono goduta tutto il suo calore. È stato bello … lo so è difficile da …
- Ti capisco …

E intanto immagino l’anfora con dentro tuo padre ridotto in palline. Era l’ultimo calore che poteva darti.  In ricordo del suo abbraccio. Di quando lui era forte e tu piccola. È stato lui a covare te.
Chissà se domani scalderemo le case con  centrali a combustione di corpi.

- Poi l’ho portato da sua madre. Avrei potuto tenerlo sul camino.
- Meglio così …

Penso. E se dal camino fosse caduto sparpagliandosi sul pavimento? L’avresti dovuto raccogliere con la scopa e la pattumiera facendo attenzione a non lasciarne in giro. Avresti potuto perdere qualche sua convinzione diventata sferica.
Per sicurezza, avresti dovuto usare l’aspirapolvere. Con un sacchetto pulito.

L’orologio a uccelli esotici gracchia le 11:00.

- Che ne pensi se usciamo – dico.
- Sì, andiamo. Mi accompagni alla macchina? È già tardi.

Vado a pagare. Il barista mi fa un cenno. Ci rifacciamo … vuole che capisca.
Lo guardo e non parlo. Mutismo contagioso il suo.
Usciamo.

Laura cerca di riattaccare il cerotto zuppo di lacrime. Mi racconta che sua madre non sa cosa farsene di tanto tempo libero. Le rispondo che è normale. Che imparerà di nuovo a vivere per sé. Che ci vuole pazienza. Come una cura.

- Sì, – dice – hai ragione. Scusa, ma anche se era previsto, se ci speravamo tutti, è stato un grande dolore e ora quasi ci sentiamo in colpa per averlo desiderato. Ma basta … parliamo  di altro adesso.

Il negozio di abbigliamento all’angolo espone abiti estivi. Il tempo è brutto ma è quasi primavera. Io e Laura proviamo ad immaginarci come saremmo con quella minuscola gonna a fiori in dosso. 
Un piccione zampetta in un angolo. Sceglie avanzi di pizza tra i coriandoli. Su una panca una vecchia donna ha steso un sacchetto di plastica gialla e si è seduta. Ha tirato a sé la carrozzella con un vecchio uomo dentro. Hanno le ginocchia incastrate tanto sono vicini. Lei piange e si volta verso il cielo. Ha un fazzoletto stretto nel pugno. Lui allunga le braccia, le prende il viso tra le mani. Se potesse alzarsi per farla felice.

Non ho più mal di testa. Siamo arrivate alla macchina.

- Grazie … Poi una sera vi invito a cena. Quando ci siamo assestati un po’. Scusa di nuovo.
- Per favore Laura … non hai niente da scusarti – le rispondo – Veniamo volentieri a cena. Quando vuoi. Saluta tua madre.
- Ok.

Non scusarti, penso ancora. Ti ho ascoltato volentieri. Mi hai fatto riflettere che la morte ha un unico pregio: è irrimediabile. Per questo ci libera.

Mentre torno indietro incontro la vecchia signora che spinge la carrozzella. Ha smesso di piangere. Come ha smesso di piovere.
Tutto è sempre così ridicolo.

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