Con questo, L’acqua alta (Elliot 2011), Roberto Amato è giunto al quarto libro, il quinto se si considera anche la plaquette Gli sposi (Diabasis 2005). Chi lo ha seguito in questo suo cammino forse si sarà un poco assuefatto alle sue invenzioni poetiche, magari proverà meno stupore di fronte agli amabili salti della sua logica e quasi gli sembrerà di conoscere già gli attori di questa nuova commedia buffa. Ma in quarta di copertina si legge che L’acqua alta è stato scritto “molti anni prima de Il disegnatore di alberi” (uscito nel 2009). Allora viene da chiedersi: molto prima quanto? E perché è uscito dopo? E lo stupore ricomincia per questa vena creativa costante, già matura ieri come ora, per questo poeta che può permettersi di buttare fuori un libro o un altro a scelta (a capriccio?). Qual è la linea di sviluppo della sua poesia? Sempre che ci sia una linea e non un lago magmatico da cui il poeta attinge con rara possibilità di sbagliare.
In esergo è posta una lunga (e un po’ enigmatica) citazione dal filosofo Kierkegaard che argomenta sul Don Giovanni di Mozart e che termina così: “se si è infantili alla pari si gioca meglio”. E’ un invito al lettore ma anche un avvertimento. Un invito a disporsi al gioco: gioco poetico, gioco con le parole. Se non si è capaci di questa regressione è meglio lasciare perdere, questo libro non fa per noi (e forse la poesia in genere non fa per noi). Ma veniamo al dunque. Cosa c’è in questo libro? Dire che c’è un io che scrive a un tu non spiega molto, anche perché Amato ci ha abituato agli pseudo-epistolari. Non è una novità nemmeno che il destinatario sia una lei, probabilmente un’amante, vera o immaginaria che sia . C’è di nuovo che questo monologo – figurarsi se c’è traccia di risposta! Il tu di Amato è sempre uno specchio – ha luogo a Venezia e Venezia è Gerusalemme, le due città si sovrappongono. Perché Venezia è una città doppia, dal momento che si specchia nell’acqua della laguna, e anche Gerusalemme è una città doppia perché immagine della Città Celeste.
Ora, in questa che è la città romantica per antonomasia, città di lune di miele e innamoramenti, una coppia di sposi si aggira eternamente senza più trovare l’uscita. Manlio Cancogni, nella nota finale contenuta nel volume, scrive: “Ma provate a leggerlo (Amato, n.d.r), e poi ditemi se non vi è parso di essere investiti da un’onda d’aria fresca, frizzante, profumata, che muove e alleggerisce il passo (immagino sempre che lo si legga camminando, su un marciapiede di città, o lungo un canale, o su una spiaggia davanti al mare aperto ‘tutto fresco di colore’) pronti a spiccare il volo”. E certamente è vero, la leggerezza di Amato è innegabile e pervasiva. Ma se si scava appena sotto viene fuori altro, emerge un’inquietudine sommessa e disperata di fronte al nostro destino di uomini. La Venezia visibile ne nasconde un’altra, sotterranea, anzi subacquea, che si ramifica verso profondità indefinite, abissali, confinanti con i terreni vaghi dell’aldilà. Scrive Amato a pagina 21: “I piccioni di questo oscuro campiello sono del tutto neri / … forse sono piccioni mortuari”; e due pagine più il là si leggono versi che paiono uno struggente e definitivo congedo:
Non voglio che nessuno mi accompagni oltre il ponte
(dove l’ultima scala scende l’acqua
e i gondolieri si perdono)
non voglio che nessuno veda quello che vedo io
e che mi è destinato
forse per uno sbaglio degli uccelli
i piccioni mi guardano con una certa dolcezza
(che non ti aspetteresti da loro)
oltretutto non era me che aspettavano:
io non sono nemmeno di qui
qui non ho amici
conoscenti
e non sono mai entrato in un panificio
in una polleria o in questi piccoli negozi per turisti
eppure
gli uccelli
mi fanno cenno di seguirli
rallentano perfino il loro passo saltellante
perché io non mi perda[1]
I piccioni assurgono quasi al rango di animali mitici che accompagnano l’anima verso il luogo del riposo definitivo. Certo, restano piccioni, animali privi di quell’alone magico-poetico che attribuiamo agli animali del bosco, ma questo fa parte dell’opera buffa di Amato, del suo mischiare i piani dell’alto e del basso, dell’addolcire le ambasce cosmiche con qualche domestica dolcezza o ironia. Venezia, però, sembra rappresentare una specie di viaggio ultimo:
Evelina
noi non ci siamo più
questo è evidente
perfino i gondolieri non ci vedono
o ci scartano
come piccoli ostacoli
come cose senza valore[2]
Un viaggio tutto in profondità, verso inferi acquatici:
… e dunque?
… io non lo so
cosa dovremmo cercare
in tutta questa acqua…
… scendere
con la nostra zavorra
scandagliare i canali
che (secondo gli antichi
topografi subacquei)
sono di una profondità
infinita… [3]
E ancora:
io però batto i tacchi
valuto il vuoto sotto di me
dove ci sono secoli di scoli
di fognature che raggiungono il mare
per vie traverse[4]
E pochi versi dopo:
… ma qui
(secondo i dépliant)
un metro sotto la stazione
ci sono le catacombe…
la morte è del tutto subacquea
un proscioglimento[5]
Questo movimento verso il basso, questa attrazione ipogea, è confermata anche dal geometra Nicodemo, figura che appare più o meno a metà libro e che sembra avere una funzione di raccordo/spostamento fra il subacqueo e il sotterraneo, fra l’acquatico e il terreno, ma anche verso il domestico perché qui comincia una discesa che è anche regressione temporale verso l’infanzia:
le fondamenta
scendono credo per moltissimi chilometri
secondo Nicodemo
finiscono
dall’altra parte della terra
e
nelle giornate chiare se non c’è troppo vento
raggiungono la luna[6]
E poi:
Se tutto affonda è come se la casa salisse
questo è un concetto semplicissimo
(e un poco tolemaico)
…
certo siamo sotto il livello del mare
(e di molto)
e un volo di murene lo conferma[7]
A questo punto può aprirsi la sezione intitolata “Nella profondità della casa” dove continua lo scavo e la discesa del protagonista (chiamiamolo così) di questo libro e dove il lettore ritroverà molto della vena visionaria dei precedenti lavori di Amato, quella mitologia domestica che abbagliava già ai tempi delle Cucine celesti.
Gli scavi, dicevamo:
Secondo me
siamo in un abisso
archeologico
la casa è sprofondata
per molte miglia marine[8]
E dopo:
Io continuo a scavare sotto la casa
anche senza l’aiuto del mio domestico Tanino[9]
E ancora:
Scavo tranquillamente
la terra è morbida e ha un profumo dolcissimo
di nuvole[10]
E infine:
Questa voragine
(pensavo) è proprio
della misura giusta:
fa scivolare la casa lentamente
(e non si sa
dove potrebbe fermarsi)[11]
Al piano di sotto della casa c’è – curiosa invenzione – un monastero da dove provengono ticchettii di bastoni e strofinii di pantofole. Un monastero che somiglia molto ad una casa di riposo. E infatti, al piano di sotto della casa paterna
c’erano grandi camere
e dietro i paraventi
si sentiva il russare senza fine
dei bisavoli e dei trisavoli
dei parenti più antichi
e più complessi
(dormivano per sempre
anche gli zii dei nonni
le nuore dei bisnonni
le cognate e i cognati
dei trisavoli)[12]
Nelle ultime pagine del libro, intitolate “Il piccione di Händel”, Gerusalemme torna a sovrapporsi a Venezia, suggerendo una prospettiva escatologica; compare Minosse il vinaio, la cui cantina è un antro che fa pensare al mitico labirinto; compare soprattutto Mozart, che trascorse giovanissimo alcuni mesi nella città lagunare e che, dopo avere aperto il libro nelle parole di Kierkegaard, viene a richiuderlo quasi con l’aspetto del Convitato di pietra, bianco come il sale, pallido come un morto, a suggerire ancora una volta, e definitivamente, che oltre Venezia-Gerusalemme non si va, che quello che ci è stato raccontato è il viaggio conclusivo. Ma Amato ce lo ha raccontato con tutta la leggerezza possibile, con tutta la dolcezza che è racchiusa nella speranza ingenua e insopprimibile di ricongiungersi agli affetti dell’infanzia, di ritrovare, un domani, le nostre origini.
Alessandro Trasciatti
Note
[1] Roberto Amato, L’acqua alta, Elliot, Roma, 2011, pag. 23.
[2] Ibid. pag. 26
[3] Ibid. pag. 27
[4] Ibid. pag. 35
[5] Ibid. pag. 36
[6] Ibid. pag. 44
[7] Ibid. pag. 50
[8] Ibid. pag. 57
[9] Ibid. pag. 61
[10] Ibid. pag. 62
[11] Ibid. pag. 82
[12] Ibid. pag. 68
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