Vincenzo è uno dei pochi che quando viene al Pantano per cacciare tartufi, entra ed esce con passo leggero, silvano.
Riconosco la macchina, ma, a volte ho l’impressione che un suo doppio sottile, vi abiti in permanenza, comparendo quando meno te lo aspetti o proprio perché te lo aspetti.
In un tempo immemorabile, la natura mischiava le forme, le teneva vicine e anche un essere umano poteva mostrare le fattezze di un luogo o viceversa.
Ecco spiegate le ninfe, i fauni, i centauri. Figli come un masso o una siepe di pruni di quella collina, di quel pianoro, di quel cocuzzolo.
L’ho visto ripercorrere le stesse tracce di altri e trovarne sempre: scorzoni, pietrosi fuori e teneri dentro, che esalano un profumo di grembo, di caglio e zolfo, combinando l’elemento umido con quello igneo; seminati, come si credeva, direttamente dal cielo, a colpi di fulmine.
Il merito è dei cani che addestra e di cui ha assimilato qualcosa che sta al confine tra noi, loro e il passato remoto.
I suoi cani lavorano sodo, ma lo fanno ancora con un misto di massima attesa e di giubilo.
Incitamento, pacche e contentini sono le regole del gioco, poi però c’è il gioco in sé per sé. Il piacere di condividere tanto la strategia che lo scopo, di prepararsi, di imporre alle circostanze e agli altri un proprio stile.
Solo così l’utile, pur restando tale, si trasforma piano piano in un pretesto, un buon pretesto per stare al mondo.
Cosa ben diversa da chi, invece, è abituato a subordinare ogni azione all’interesse e, in maniera ancora più schizofrenica, al punto di vista altrui.
Potrei dire che, rispetto a certi vandali o ad altri visitatori rumorosi quanto inconcludenti, Vincenzo e il suo cane palpano il terreno, lo annusano e ci si rotolano insieme.
Il loro è un conoscere e un sentire, un fare d’artisti, facendosi corpo col paesaggio, diventandone a secondo dei momenti la parte fissa e mobile, la durata e la felicità.
Si avvicinano al vecchio uliveto come ci si siede al tavolo, per una, due tre, dieci mani di carte.
Al contrario, può capitare che giocatore e socio arrivino, diano
un’occhiata e passino oltre. Quel giorno non è aria, qualcosa sulla scena o negli immediati dintorni li disturba, togliendo alla serietà del gioco quel pizzico di bellezza che lo apparenta a un rito.
Anche i luoghi chiamano e quando un posto tace, non c’è da insistere.
***
Più che allungarsi verso l’alto Vincenzo si assottiglia. La prima impressione è di vedere un ramo che cresca al centro della pianta e ondeggi in cima. Poi, l’immagine si precisa in quella di una lama che danza sempre in sintonia col più recondito dei pensieri.
Perciò, la camicia aperta non è un vezzo, non serve a mostrare il petto.
Indica, piuttosto, un modo naturale di stare in guardia senza complessi, di farsi avanti per quello che già sei. O così o niente, perché va bene lo stesso, perché, girando nei boschi, gentilezza e fermezza né barano né fanno sconti.
Prima che del cavallo di questa storia, Indio era il nome di un cane da caccia.
Un cane sveglio, esuberante, tenace anche quando era costretto ad improvvisare, a giocare a calcio, nel ruolo di portiere.
Gli era capitato quel nome per via del pelo a chiazze, passato poi al cavallo che aveva un mantello se non proprio uguale altrettanto pasticciato.
Indio, corto ma dolce, esotico senza apparire troppo estraneo, è un bel nome. Ha la sua magia.
Uno di quei nomi che ripeti volentieri e che ti aiutano ad entrare in contatto, ad intrecciare un dialogo di note come succede tra due strumenti a fiato che si interrogano e si provocano.
La testardaggine fa il resto, ma possedere la parola magica, il nome segreto è essenziale anche se si tratta dello stesso nome per due animali di taglie e ambizioni diverse.
È forse proprio questo il talento di Vincenzo: riconoscere e seguire le vie che prendono certe incarnazioni.
Allora, a Faiolo, lungo la via del Fosso, si ripeteva l’identica scena con un numero variabile di animali che camminavano in fila indiana dietro ad Indio, montato da Vincenzo.
Fila indiana appunto, sorvegliata con ruvido zelo da una capretta, presa anche lei in questo strano ballo dove ognuno si mette al passo, cercando di intuire il linguaggio umano o bestiale dell’altro.
***
Un giorno qualsiasi, un giorno di lavoro, da casa cercano Vincenzo. Non è normale e Vincenzo si preoccupa. Immagina il peggio, non certo che Indio sia sdraiato a terra senza dar segni di vita. Da quando l’hanno trovato così, sono stati fatti diversi tentativi per rianimarlo, ora avvicinandogli la fiamma di un accendino, ora tirandogli la coda, ora gridandogli qualcosa nell’orecchio, ma sempre invano.
Indio «è un po’ morto» come qualcuno arriva a dirgli, andandogli premurosamente incontro.
Vincenzo si ferma, l’intera scena è comica e solenne al tempo stesso; per un po’ osserva i parenti, poi guarda Indio e lancia un unico fischio. Il cavallo scatta in piedi, è vivo, stava solo facendo il morto.
Dei presenti il più stupito è lo stesso padrone. Si ricorda che andandosene l’aveva accarezzato, salutandolo con un «Muori»!
E l’altro aveva eseguito, restando di sasso per qualche ora.
Come definire l’accaduto, il felice trapasso dello stesso nome da un cane ad un cavallo che si attiene scrupolosamente al macabro scherzo?
Mi viene in mente il duello verbale tra Antistene, il cinico e Platone.
«O Platone, vedo il cavallo – affermava il primo – ma non la cavallinità».
«Perché non hai l’occhio per vederla». Gli rispose l’altro.
Ad Antistene, che non ammetteva l’esistenza degli universali, il cavallo pareva solo un animale, una realtà corporea, materiale, mentre per Platone la sua essenza trascendeva il caso e
l’individuo. Era l’idea di cavallo che permette di pensarlo e di conoscerlo.
Indio come il cavallo di Platone non era solo un cavallo pezzato, vissuto a Faiolo, ma aveva a che fare con il concetto di cavallinità. Il quale abbraccia molte e misteriose cose.
(In alto: testa di cavallo in gesso nello studio di Romano Masoni, Santa Croce sull’Arno)