Clara Negro: Angela

di Trasciatti il 21 novembre 2011 · 0 commenti

Genova, anni ’60.
Presa dalla frenesia del progresso, in pieno boom economico, la città vuole crescere.
Costretta tra mare e monti si allunga, proprio come un chewing-gum quando lo tiri fuori dalla bocca.
Genova è la mia città. A dirla tutta, non sono proprio nata in centro città, ma in una delegazione, anche se la più importante, Sampierdarena.
Mio padre dice che i costruttori hanno il loro daffare a cercare spazi per le case. Devono accontentarsi di una striscia di terra e contendere lo spazio alle colline sassose, spezzate da terrazze e muretti a secco dove crescono ulivi contorti.
Io vivo in periferia, che è diverso che vivere nel centro. Infatti, città e delegazione sono due luoghi ben  distinti. Sono come due signore che si guardano in cagnesco, fiere del rispettivo modo di vivere.
Qui sono cresciuti come funghi i caseggiati. Palazzoni messi in fila, come tante pedine del domino. Simili ad alveari dove le famiglie vivono, le une accanto alle altre, dove si mescolano le voci, i dialetti, dove uno che viene da un’altra regione si chiama “foresto”.
In periferia non tutti possono permettersi un automobile, così le strade fanno ancora parte della vita di noi ragazzi. Sono la nostra seconda casa, una sorta di scuola in cui le lezioni sono, a volte, dure da imparare e lasciano segni profondi come cicatrici.
Il mio nome è Angela, ma Gino, il padrone del bar sotto casa, mi ha battezzato Trenetta, che, in genovese, significa linguina. Una specie di spaghetto piatto, per sottolineare che di forme donnesche io non ne ho neppure l’ombra e sono magra e sottile proprio come una trenetta.
Rosa, la fruttivendola, il macellaio Carlo e Paola la fornaia, ogni mattina tirano su la saracinesca dei loro negozi sulla terrazza che corre lungo tutto il palazzo. Sono loro che ci vedono crescere, giorno dopo giorno, e come tanti zii, vigilano a turno sui nostri giochi. Quando diventiamo troppo rumorosi, o scontriamo le vetrine, presi dalla foga del gioco, escono con la scopa in mano o uno strofinaccio arrotolato, perché sulle gambe fa più male, e ci scacciano con la minaccia di chiamare i nostri genitori.
Noi fingiamo di aver paura e ci allontaniamo, ma dopo poco siamo di nuovo lì a giocare ad alto e basso, ai quattro cantoni o a nascondino.
Quando la scuola finisce, a giugno, sono pochi quelli di noi che vanno in vacanza. Le nostre famiglie non se lo possono permettere. Siamo figli di operai o impiegati statali. Le mamme stanno ancora a casa, mandano avanti la famiglia, stanno dietro ai nonni, che è una vergogna mandarli al ricovero! E i soldi bastano per il mangiare e per il mutuo della nuova casa, in quel caseggiato moderno, con l’ascensore e il riscaldamento, la camera per i figli e una per i nonni, così che tutti dormono nel loro letto.
Negli appartamenti c’è anche il citofono che serve moltissimo a noi ragazzi, perché con uno squillo ci chiamiamo per scendere a giocare.
Io abito al dodicesimo piano, ma non posso ancora prendere l’ascensore perché non ho dodici anni. Scendere è facile. Un piede sul muretto della ringhiera e un’ascella sul corrimano, e poi giù sino in fondo, di volata fino al primo piano. Le ultime due rampe dobbiamo farle bene, perché Pietro, il portinaio, è sempre pronto ad urlarci dietro o peggio, a darci un calcio nel sedere. E non guarda se sei maschio o femmina.
Siamo in tanti giù a giocare: Ugo, Annalisa, la Cicci, Aldo, Nando, Luisa ed io.
Ci siamo tutti, per tutta l’estate, nei pomeriggi caldi ed assolati a gridare, a scalmanarci, persi nei giochi di sempre.
“Oggi stai sotto tu!”
“No, non vale l’ho già fatto ieri.”
“Va bene, allora contiamo. Mettete i pugni.”
“Pimpiripetta nusze, pimpiripetta pam! Fuori”
E così avanti finchè non ne rimane che uno di pugno. Il pugno di chi sta sotto, che brontola, protesta, ma poi si rassegna.
“Non vale dalle scalette. Mia mamma non mi lascia attraversare la strada!”
Questo è Aldo, il ragazzino più buono che conosca. E timido anche. Ogni anno, all’inizio dell’estate, non ha mai il coraggio di unirsi al gruppo. Resta seduto sulle scale del suo portone, fingendo di leggere qualche giornaletto, e ci guarda di sottecchi, aspettando che, Luisa, io e la Cicci, le più spavalde, andiamo a chiamarlo. Lo tiriamo per la maglietta.
-“Dai, vieni a giocare. Ci manca uno per scossa elettrica!”
Aldo si fa un po’ pregare, ma poi arriva, la testa bassa e gli occhi che ridono.
“Fifone, sei una donnetta!” Lo canzona Ugo. Ugo ha qualche anno più di noi e non ha paura, o fa finta di non averla. Lui è il bulletto della via, tocca il sedere alle bambine e le spia quando fanno la pipi alla vecchia Galleria.
Verso le cinque del pomeriggio siamo stanchi morti. Le magliette a righine bianche, rosse e blu, quelle della Upim, appiccicate alla pelle, le calze afflosciate alle caviglie, sulle scarpe da tennis, ci fermiamo, grondanti e rossi in faccia a prendere fiato.
“Aldo ce l’hai i soldi per i tacchetti? Ieri te li ho dati io.”
Vicino al bar, le mani nelle tasche dei pantaloncini, cerchiamo gli spiccioli per le macchinette. Quelle palline colorate, che riempiono la boccia di vetro, ci attraggono come calamite.
“Io ho dieci lire, e tu?”
“Ne ho quasi venti, ci bastano anche per i pesciolini”
Ci sediamo finalmente, sui gradini del palazzo.
Qualcuno di noi suona al citofono.
-“Mamma mi prepari qualcosa per merenda? Vengo su a prenderla.”
-“Vieni su a piedi, lo sai che Pietro non vuole!”
-“Uffa, però non è mica il padrone del palazzo!”
-“Non sono il padrone, ma sono quello che lo tiene pulito! Leva quelle manacce sudice dai vetri che li ho appena lavati.”
Pietro brontola sempre, ci grida dietro, ma in fondo è buono e, quando qualcuno è in difficoltà, l’aiuta sempre. Lui è il padre di Luisa, la mia miglior amica. Luisa non può venire sempre fuori con noi, perchè deve stirare o deve guardare la portineria mentre suo padre pulisce le scale. Allora io entro con lei e mi accuccio sotto il bancone, perché nessuno mi veda. Non vogliono che degli estranei stiano in portineria e fanno la spia a Pietro.
I grandi fanno spesso la spia,  noi invece no. Anzi, se qualcuno di noi la fa, allora gli gridiamo: Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù e all’inferno ci vai tu! Ed è giusto, perché fare la spia è una brutta cosa.

Alla mattina la mamma non ha mai bisogno di chiamarmi, mi sveglio sempre da sola, molto presto. Per non fare rumore, prendo un libro e leggo. Leggo molto io.
Papà dice che faccio bene, dice anche che l’ignoranza è il veleno dell’uomo, e che la religione è l’oppio dei popoli. Non so bene cosa voglia dire, ma lui mi dice che è comunista e che il Papa è la rovina dell’Italia, come la Democrazia Cristiana. Anche questa non so cos’è, ma sembra una cosa molto brutta da come ne parla lui. Mamma non vuole che faccia questi discorsi, dice che, prima o poi, si metterà nei guai con queste idee.
Quando sento la mamma che mette su il caffè,  vado in cucina.
Sul tavolo ci sono già i biscotti Mellin, quelli che preferisco. Sono piccoli e duri, non diventano  una poltiglia appena li intingi nel latte, ma rimangono croccanti, proprio come piace a me. Mi piace anche la loro scatola di metallo. Quando è vuota la mamma ci mette i fili che adopera per cucire. Mia mamma fa la sarta, cuce per molte signore di Genova che vengono a provarsi i vestiti qui, a casa nostra. Papà brontola, le chiama sporche borghesi, arricchite sulle spalle degli operai, ma la mamma lo spinge in cucina e gli dà qualcosa da mangiare. Lui si calma sempre quando mangia. Dice che per lui mangiare è un rito.
Dopo colazione scendo a comprare con la nonna. Il suo nome è Colomba, ed è strano perché non è per niente bianca, ha una pelle scura che sembra abbia preso il sole. L’aiuto con le borse perché non cammina molto bene. Mamma dice che dovrebbe farsi operare, ma la nonna non vuole perché ha paura degli ospedali che sono pieni di suore.
-“Angela non vieni a giocare?” Cicci mi chiama.
-“Aiuto mia nonna e arrivo. Aspettatemi!”
-“Oggi però non corriamo come ieri. Sono caduta, ho rovinato il vestito nuovo e mi sono sbucciata un ginocchio.”
La Cicci ha due anni più di me, le piace fare la signorina. E’ alta e bionda e ha anche le tette, per questo Ugo le sta sempre appiccicato. Lei fa finta di arrabbiarsi, ma se lui non la guarda fa di tutto per farsi notare. E’ sempre ben vestita, sua mamma ha il negozio di abbigliamento, proprio di fianco al fruttivendolo e le mette sempre qualcosa di nuovo. Per questo lei si da un sacco di arie e si crede chissà chi. A me i vestiti non mi piacciono. Quando corro mi legano le gambe e finisce che i maschi mi battono. Con i calzoni, però, sono io la più veloce e li lascio tutti indietro.

LA GALLERIA

Sono le dieci, questa mattina ci siamo proprio tutti.
-“A cosa giochiamo?”
Annalisa si siede, incrociando le gambe all’indiana. Non le riesce molto bene perché ha due cosce cicciottelle, e la pancia che le si appoggia sopra. Sembra proprio un piccolo Buddha, come quello che ho visto sul mio sussidiario, quando parlava delle religioni del mondo.
Nando, grande e grosso – con una testata di riccioli biondi come l’arcangelo Gabriele – si mette a cavalcioni sulla ringhiera.
-“Scendi di lì prima che ti veda mio padre!”
Luisa, come figlia del portiere, ci riprende quando facciamo qualcosa che non va, proprio come farebbe Pietro, solo più gentilmente.
Lui obbedisce, mansueto come un grosso cane peloso.
-“Andiamo alla Galleria? Potremmo provare ad aprire la porticina del cancello.”

La Galleria è il nostro castello fatato. Dentro possiamo immaginare che ci sia qualsiasi cosa. Mamma mi ha raccontato che, in tempo di guerra, veniva usata come rifugio. Quando suonava l’allarme tutti dovevano correre a ripararsi là dentro, per paura delle bombe sganciate dagli alleati per colpire i tedeschi. Solo che le bombe cadevano anche su palazzi e scuole, con tutta la gente dentro.
La guerra mi spaventa, però mi piace farmi raccontare dalla nonna le storie di quegli anni. Sono storie che parlano di morti, di sangue, di gambe e braccia staccate dalle granate, ma anche di gente che nascondeva, e dava da mangiare a chi scappava dalle bande fasciste.
Poi di notte io me le sogno, allora, prendo il cuscino e la coperta e vado a sdraiarmi sul tappeto, accanto al letto di mamma. Cerco di non fare rumore per non svegliare papà che mi farebbe filare in camera mia come un razzo.
Tutti noi ragazzi abbiamo paura della Galleria, ma, quella grande bocca scura, sembra volerci  attirare. Se ti avvicini al cancello senti un vento gelido che ti ghiaccia la faccia. Una puzza di umidità e di muffa ti sale su per il naso e, ogni tanto, si vedono grossi topi correre da una parete all’altra. Non sono i topi che temiamo, però.
Nanni, il calzolaio, che ha il suo negozietto proprio all’inizio della salita che porta alla Galleria, ci ha detto che, se qualcuno si addentrasse nel buio di quel tunnel, troverebbe ancora quello che i rifugiati avevano portato dentro. Tavoli, sedie, vecchie brande con i materassi, lettini da bambino e anche delle valigie di pronto soccorso, per chi fosse arrivato ferito.
Qualche giorno fa, pioveva a dirotto e non si poteva proprio stare in strada. Così, uno ad uno, siamo entrati in calzoleria. A Nanni piace parlare con noi, che stiamo a sentire le sue storie con la bocca spalancata, bevendoci tutte le sue parole come fossero tante Coca Cole.
Ci fa sedere per terra e comincia i suoi racconti. Quel pomeriggio gli andava di parlare della guerra. Ci ha raccontato di quando, sospettando che fosse un partigiano, lo avevano portato alla Casa dello Studente, e riempito di botte. O ancora quando aveva aiutato una famiglia di ebrei a imbarcarsi per l’America, giù al porto, dove aveva la sua baracchetta.
-“Sapete bambini, qualcuno racconta che una brigata nazista aveva inseguito dei partigiani fin dentro alla Galleria. Non si sa che fine abbiano fatto, nessuno è tornato indietro. Mi ci gioco il più alto dei miei tacchi a spillo, che le loro ossa sono ancora laggiù, nascoste in qualche angolo, avvolte nell’oscurità e nel silenzio.”
Alza gli occhi su di noi, che lo guardiamo immobili, e molla un colpo con il martello sopra il bancone di legno. Saltiamo tutti su come tanti grilli e scappiamo gridando. La sua risata ci rimane attaccata ai calcagni sino in strada, mentre raggiungiamo il portone.
La voce di Morandi, che esce dal juke box nuovo del bar, chiede ad una ragazza-bambina di scendere a comprare il latte. Ridiamo, mentre Tony e Rosa si scambiano un bacio nel buio del portone di fronte.

(In alto: disegno di DarkO)

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