Alessandro Trasciatti: Il giardino delle delizie

di Trasciatti il 22 novembre 2011 · 0 commenti

Sono sceso nel Giardino delle Delizie tenendoti per mano. L’acqua del lago ci arrivava alle caviglie, poi alle cosce, poi alla vita, rinfrescando i nostri corpi, distillando le nostre pene, sempre più flebili, impercettibili. Ecco che l’angoscia è messa tra parentesi, scacciati i brutti sogni, la morte farsi un’ipotesi remota. Ci prende un’illusione d’eternità necessaria alla vita, un ritorno all’infanzia dei sensi.


C’era una boschetto, se non ricordo male, con alberelli carichi di frutta. Tutte  mele che potevamo scegliere senza timore di punizioni divine. Un piccolo eden dove nemmeno Dio aveva posto divieti. Un Dio di tolleranza assoluta, molto terrestre e bonario. Anche lui coglieva mele, le assaggiava, ci consigliava su quelle più gustose. Sedevamo, senza vesti, accanto a lui ai piedi dell’albero della conoscenza come buoni compagni di creazione. Di fronte a noi, sul lago, vagavano barchette di amanti in tenere effusioni, mosse leggermente dalla brezza. Non credo che toccandoci l’un l’altro commettessimo peccato. Forse anche Dio aveva allora una compagna con cui scherzava e trascorreva le giornate. Non era con lui quella volta, ma non c’era segno di tristezza sul suo volto. La certezza di essere amati ha un effetto persistente, ben al di là del mutare delle stagioni e dei rovesci della fortuna. Si vedeva che Dio era felice. Come noi. Aveva nei gesti e nella voce una tranquillità ferma, incrollabile. Selezionava mele con la mano esperta dell’intenditore e ci offriva le migliori. Noi, amanti ingenui, dolci e sensuali, le mordevamo a turno e ridevamo.
La nostra vista, già lieta per la mutua contemplazione dei nostri corpi, era ulteriormente rallegrata dalla scena circostante. Molti acrobati, alterando in apparenza le leggi di natura, ci dischiudevano un mondo dalla possibilità illimitate. Vincevano la legge di gravità, si dondolavano sul nulla, eseguivano esercizi tanto complicati nella preparazione (questo lo dico a posteriori), quanto semplici nel risultato finale. Un tale nuotava in apnea nello specchio d’acqua di fronte a noi ed appariva, per prendere aria, ogni dieci, quindici minuti. Quell’uomo-pesce, ci disse Dio, un giorno sarebbe divenuto celebre col nome d’arte di Giona.
Poi scese il crepuscolo, l’aria si fece leggermente più fresca, ci congedammo dal nostro ottimo amico e ci ritirammo nel nostro padiglione. Fu una notte di amore intenso, vorticoso. Ti avevo accarezzato con lo sguardo per tutto il pomeriggio, gonfiandomi di desiderio. Avremmo naturalmente potuto amarci nel boschetto senza vergogna o timore di essere disturbati, ma era stato bello lasciare crescere la voglia piano piano, mentre ci dedicavamo al piacere del gusto, della vista, della parola. Ora eri di fronte a me, nuda come sempre, ma più desiderabile. Credo di essermi profuso nell’elogiare il fiore del tuo corpo, le tue proporzioni, il tuo stare nello spazio come una composizione viva e rigogliosa, il tiepido richiamo che saliva dalla tua intimità. Fu una notte lunga, dispendiosa, oceanica. Una felice spossatezza ci condusse al sorgere del sole.
Ci risvegliammo in cima ad un carro stracolmo di fieno mentre si scatenava una lotta per il suo possesso. Noi, estraniati per scelta e possibilità dalla storia che fluiva chiassosa ai nostri piedi, non prestavamo attenzione alle grida, ai colpi, alle imprecazione furibonde, ai lamenti che laceravano l’aria intorno a quel simbolo d’abbondanza su cui eravamo issati e che aveva provocato anche lì, in quel paradiso terrestre fattosi d’un tratto anomalo e incoerente, la bramosia di ricchezza. Da dove erano entrate le passioni? Da quale invisibile crepa avevano fatto ingresso gelosia, rabbia, rivalità?
Ma fu cosa da poco. Bastò un acquazzone a disperdere la turba cenciosa dei contendenti. Tutto si ricompose. La quiete rifiorì, interrotta solo da qualche trillo d’uccello e da uno stormire intermittente di fronde. Tuttavia un velo era stato sollevato e, seppur brevemente, aveva rivelato aspetti delle cose incongrui, stridenti, di un colore opaco e indefinibile. D’improvviso ognuno portò dentro un passato, una serie di atti concatenati, di preferenze, d’inclinazioni che non combaciavano con nulla. E tutto questo si accordava male con l’innocenza che ci attribuivamo. Veniva da pensare che tutto ciò che era d’intorno fosse stato, un tempo, diverso. Anche l’eden non  sembrava più originario, ma frutto di un incrociarsi di fenomeni, di trasformazioni in atto persino in quel momento, sotterraneamente. Chi era Dio prima di essere Dio? O, comunque, che Dio era prima di essere questo Dio, così come lo conoscevamo? E gli acrobati, gli amanti, il futuro Giona…cosa si celava sotto la loro rassicurante presenza?
Per la prima volta provammo tutti, nel medesimo istante, un senso di vertigine. Gli acrobati esitarono, alcuni caddero, gli amanti si guardarono perplessi, Giona rischiò di affogare, Dio si lasciò sfuggire una bestemmia. Il tempo si era mosso. Apparve anche un cherubino che, brandendo un po’ maldestramente una spada di fuoco, ci ordinò di andarcene. Aveva avuto istruzioni precise ma, con tutta evidenza, il ruolo che si trovava a giocare gli creava qualche imbarazzo e la sua voce non era così ferma come avrebbe dovuto. Dio allargò le braccia sconsolato come a dire: abbiate pazienza ragazzi, il copione non l’ho scritto io.

(In alto: Hieronymus Bosch, “Il giardino delle delizie”)

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